Giacomo Aula: jazzista lucano a Berlino

Foto: Emilio Esbardo

A Berlino nel locale del ristorante “Pomodorino”, di proprietà di Gerardo Amendola e Marcello Calenda, si svolge mensilmente la rassegna musicale “Pomodorino Jazz”. La manifestazione è stata ideata e organizzata da Giacomo Aula, pianista jazz lucano, che vive stabilmente a Berlino, ma quasi sempre in giro per il mondo in posti come Stati Uniti, Giappone, India, Francia, Spagna etc.

A supportare l’avvenimento è l’agenzia MMS, fondata nel ’97 dalla stesso Giacomo. L’obiettivo della rassegna è quello di promuovere artisti giovani e meno giovani, esordienti o già affermati, come, ad esempio, il chitarrista Cristian Paduano di Lagonegro, che ha avuto anche la possibilità di esibirsi presso il “MyPlace Musik Lounge” di Francoforte.

Giacomo è da tempo presente nella scena musicale jazz. Pianista, compositore e polistrumentista fa parte, tra l’altro, del Giacomo Aula Trio, la band da lui fondata, e del prestigioso gruppo americano Douglas Little Quartet, con il quale ha attraversato in tour gli Stati Uniti. Nell’incontrare personalmente Giacomo Aula, mi sono fatto raccontare la storia della sua vita e della scena jazz italiana a Berlino.

Dirk Steglich - Foto: Emilio Esbardo

Giacomo ci puoi raccontare qualcosa di te e della tua vita?

La vita di un musicista, di un artista è qualcosa di estremamente complicato, qualcosa in cui molte ramificazioni si mescolano, ricca di tantissimi avvenimenti, alcuni molto piacevoli, altri meno. La vita professionale si unisce alle vicende personali: agli incontri con le persone, con gli amici, a quello che si fa, alle aspirazioni, alla voglia di rischiare e di fare cose nuove, ai punti fondamentali di svolta e decisioni. Io, in buona sostanza, sono un pianista di jazz, o almeno così mi definiscono. Ma sono anche un ingegnere elettronico che a un certo punto della sua esistenza ha iniziato a dedicarsi all’arte, alla musica a tempo pieno. Sono nato il 28 marzo del ’67, a Lagonegro, che è un posto che amo: è un luogo singolare, a settecento metri di altezza, a 15km dal mare di Sapri e a 10 dal Monte Sirino, dove puoi andare a sciare. È una cosa rara al mondo. I miei ricordi d’infanzia sono sicuramente belli. Ho iniziato a suonare presto. Tra i cinque-sei anni, mia madre mi fece seguire un corso-gioco di pianoforte all’asilo, dove l’insegnante disse che ero portato per la musica. Tra gli otto-nove anni, poi, iniziai a prendere lezioni di pianoforte regolarmente, frequentando il Conservatorio da privatista. Devo molto alla mia insegnante, il Maestro Maria Martino, che in quegli anni mi portò ad amare la musica, però all’epoca ero totalmente ignaro del jazz. I pomeriggi della mia fanciullezza trascorsero tra le partite di calcetto con i miei coetanei e sul mio pianoforte tedesco Schulze Pollmann. Dopo essermi diplomato al liceo “De Lorenzo” a Lagonegro, mi sono iscritto a ingegneria al Politecnico di Torino. Ho sempre avuto una grande attrazione per l’elettronica, l’informatica e per le tecnologie in generale. Il primo anno e mezzo mi sistemai in un collegio dove ebbi una specie di crisi, di astinenza da musica, perché lì non si poteva suonare. Decisi di acquistare uno strumento portatile, un clarinetto, che imparai in modo amatoriale, avvicinandomi per la prima volta, alla musica jazz. Iniziai così a frequentare l’allora famigerato Corso Duca Degli Abbruzzi 24, dove le stesse Aule di Ingegneria ospitavano una fervente scena jazzistica e dove incontrai musicisti di fama internazionale come il grande chitarrista americano Barney Kessel, amico di Charlie Parker e per il quale ho scritto un blues. Una persona eccezionale. Ero un lucano che faceva gavetta musicale a Torino. Ornella Tromboni mi invitò a lavorare come insegnante di pianoforte per il Centro Jazz Torino, da lì vennero gli ingaggi nella Big Band diretta da Felice Reggio. Quindi progressivamente entrai nella scena torinese, con le collaborazioni con Gianni Basso, Fabrizio Bosso, i fratelli Chiara, Alessandro Minetto, Nicola Muresu, Moreno D’Onofrio, Alessandro Maiorino, Flavio Boltro, Roberto Regis, Paolo Porta, Max Carletti, Fulvio Albano. Questa è stata la mia gioventù musicale. Nel frattempo mi laureai e iniziai a lavorare come ingegnere per grosse aziende come Fiat Auto, Nestlè, Generali, Comune di Padova, Renault Veicoli Industriali e Regione Piemonte. Giunto per caso a Stoccarda in Germania, rimasi immediatamente colpito dall’attaccamento dei tedeschi per la cultura: la gente legge volentieri i libri, ascolta musica e va a teatro e ai concerti. Capii immediatamente che lì avrei potuto vivere di musica. Il caso volle che conobbi un editore di romanzi proprietario di una piccola casa discografica, che mi chiese immediatamente di incidere un disco per lui. Nel 95-96, quando ancora lavoravo come ingegnere, pubblicai il mio primo album, che fu distribuito in tutto il territorio tedesco. Decisi così di fare il grande passo e mi trasferii a Berlino, dove iniziò la mia carriera professionale di musicista jazz. Questo è, in breve, il mio percorso di vita. È un misto di tante cose. È fatto di voglia di rischiare, di fare, credere e intraprendere un percorso che benché uno ci mette sempre tanto entusiasmo, rimane giornalmente duro e arduo: ogni passo porta a nuove problematiche, che ti fanno sentire di nuovo un dilettante, uno che comincia, perché devi riaffermarti e affrontare cose nuove.

Giacomo Aula al pianoforte con Dirk Steglich - Foto: Emilio Esbardo

Tu vivi più o meno da dieci anni a Berlino. Che cosa ti lega di più a questa città? Berlino ha influenzato il tuo lavoro? Quali sono secondo te i tratti salienti di questa metropoli?

Mi lega a Berlino il fatto che si respira un’aria positiva. Si respira un’aria che t’invoglia a rischiare, a vivere le cose con serenità, anche nei momenti difficili. Berlino è una città che accoglie, senza essere oppressiva. Berlino è una città che invita senza essere invadente. In questa metropoli, poi, è iniziato il mio sodalizio artistico con Douglas Little ed ho ricevuto l’onore di essere invitato a fare un concerto per la Berlinale, l’importantissimo Festival internazionale del cinema, che si tiene ogni anno a Febbraio.

Come vivi la scena jazz a Berlino? E della scena jazz italiana a Berlino, cosa mi puoi raccontare?


La scena di Berlino è una scena molto viva e aperta. Un artista, un musicista di jazz che viene qui non si sente un pesce fuor d’acqua. Si sente accolto. A Berlino ci sono ogni mese artisti, musicisti nuovi. È un posto ottimo per avviare progetti, formare gruppi e trovare collaboratori, avviare produzioni e poi girare per il resto della Germania, continuando a vivere nella capitale tedesca. La qualità della vita è alta. La scena italiana a Berlino è qualcosa di antico e ramificato sebbene abbia avuto delle fasi totalmente differenti. Ha avuto delle rassegne, delle produzioni significative come Jazz aus Italien (“Jazz dall’Italia”), dal 1999 al 2003, che io ho avuto l’onore e l’onere di dirigere. Avevamo l’obiettivo di portare musicisti italiani di pregio e favorire la cooperazione con artisti tedeschi. Questo ha portato tutto un flusso di musicisti giovani e meno giovani. Dunque oggi esiste una scena jazz italiana florida a Berlino.


Se dovessi descrivere nei dettagli il tuo tipo di musica?

Il mio tipo di musica è afroamericana, cioè jazz, contemporaneamente legata alla tradizione, che non rinuncia, anzi cerca il legame e le radici dello Swing, del Be Bop, perché a me piacciono molto anche i pianisti di Harlem, i pianisti newyorkesi, come lo stesso Duke Ellington o Fats Waller. Però esiste nella mia musica anche una grande componente romantica europea, legata alla melodia, o meglio ancora alla melodia italiana: al gusto italiano per la melodia. La cosa simpatica è che mentre in Germania vengo considerato un pianista molto moderno, in Italia più un pianista tradizionale. In due parole: la mia musica è un jazz moderno, con legami con la tradizione, ma anche con grandi aperture melodiche e compositive tipiche dello stile europeo.

Quali sono i momenti principali e le persone importanti che hanno segnato la tua vita artistica e umana?


Lorenzo Petrocca, quando in sostanza mi aprì le porte per la Germania. Todd Horton, trombettista newyorkese che ho conosciuto a Berlino al Cox Orange in Hackescher Markt, con il quale ho fatto alcuni concerti e realizzato un disco The Looking Glass Session nel 2000 per il solo mercato americano. C’è Philippe Glass, produttore esecutivo del mio terzo disco. E Douglas Little, sassofonista californiano, che ho conosciuto attraverso una ragazza giapponese Aogi Yoshizawa, che lavora come orafa in Piemonte e con il quale ho trascorso anni di collaborazioni, concerti, dischi.

Che cosa ti lega di più alla Basilicata e quali sono i sapori che ti mancano di più della tua terra quando sei in giro per il mondo?

Della mia Lagonegro sicuramente il sapore dei funghi e delle castagne, dei cavatielli e della pasta e fagioli. Lagonegro è un posto di boschi, di acqua buonissima. Noi regaliamo tant’acqua alla Puglia, alla Calabria.

Nel tuo successo quanta Basilicata, quanta lucanità c’è?


La Basilicata come artista mi ha influenzato nella sua semplicità di fare le cose, ossia di andare alla sostanza. Il cittadino lucano è una persona semplice, di poche parole, che però bada alla sostanza. Questo credo e spero di averlo conservato. Di badare al sodo e di conservare il valore della semplicità.

Tu hai viaggiato tantissimo. Cosa mi puoi dire delle culture straniere con cui ti sei confrontato. Cosa ti ha portato a livello personale il contatto con culture e comunità straniere? Ci sono dei luoghi che ti hanno colpito in modo particolare? Hai avuto contatti con i lucani sparsi nel mondo?

Viaggiare e incontrare persone, culture, contesti sociali e urbani differenti è quanto di più entusiasmante ci possa essere. Non ci sono limiti a quanto possa aprire la mentalità di una persona. Guardare persone che vivono, lavorano e operano in modo differente, fa crescere moltissimo ed io questo non voglio smettere mai di farlo. Sono rimasto, ad esempio, molto colpito da come funzionano le cose in Scandinavia. In Germania mi trovo bene per il suo favoloso senso civico, il fatto che la gente sente la città, la strada, la piazza, come una camera di casa propria. Mi è piaciuta molto la vita frizzante che c’è in Spagna e Portogallo. Negli Stati Uniti mi ha insegnato moltissimo la durissima New York. Sono stato solo sporadicamente in Giappone e spero di ritornarci per periodi più lunghi. In India ho visto dei grandissimi valori umani: mi ha fatto paura la volontà autentica delle persone di mettersi al servizio del prossimo. Ci sono delle comunità lucane sparse nel mondo ed ho avuto qualche contatto sporadico, non tanto approfondito, però, come con quella di Berlino. Spero di conoscerne, incontrarne altre e che i valori positivi dell’essere lucano vengano diffusi.

Di solito le persone vedono negli uomini di successo una vita fatta solo di successi e di soddisfazioni. Io credo che non sia così, dietro ogni successo si cela anche una vita fatta di gavetta, privazioni, dove molto spesso si tocca il fondo. Hai qualcosa da raccontarmi a proposito?

Il successo vero, il successo solido, è quello costruito con la sofferenza ma non con l’intenzione di auto flagellarsi, assolutamente no: è perché le cose più solide si costruiscono con grande applicazione, con grande sacrificio. Quando c’è qualcosa di bello, che passa per successo, c’è una sofferenza dietro. Ad esempio, posso raccontare di tutte le volte che sono rimasto in panne con le mie macchine, tra Svizzera e Germania. Queste non sono grandi sofferenze. Però, ciò che rende questi episodi difficili, è il fatto che sono pressoché quotidiani. Il problema per un artista è che questo tipo di vita è quasi giornaliera.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

I miei progetti futuri sono pochi, però cerco di portarli a fondo e a dedicarci la massima attenzione. Quello più imminente, che uscirà, spero, tra 5-6 mesi, un disco del mio trio americano MidWest, con Gordon Johnson e Jay Epstein. Sto inoltre lavorando a dei piano solo: voglio dedicarmi sempre più a questa dimensione. E poi c’è la didattica: i miei allievi che stimolo ad andare avanti, nel credere in quello che fanno e che io tento anche ad aiutarli nel dopo. Non credo siano molti a preoccuparsi dell’avvio di carriera di quegli allievi con obiettivi professionali. Non è certo una pratica vantaggiosa, però per me il valore umano conta di più.

Cosa ti porta a comporre un pezzo musicale?


Un brano, una nuova composizione è un pensiero, un’immagine, è una sensazione che si va a condensare. Un foglio di carta contiene delle note e quelle note sono una bella melodia, una bella composizione ma deve esserci una sostanza che non è musicale. Il compositore è uno che trasforma questa sostanza in musica. Io compongo quando sento un bisogno forte di fare uscire un’idea, ma quell’idea arriva dal mondo esterno, a volte me la cerco, a volte la trovo, a volte viene dalle persone che incontri, dalla casualità, quindi come faceva il grande Duke Ellington bisogna sempre avere appresso carta da musica e penna. Oppure un notebook con un editor di scrittura musicale, perché l’idea ti arriva quando meno te lo aspetti. Quando una composizione ha dentro un’idea vera, quella è matematicamente una bella composizione. Poi può essere tecnicamente mal realizzata: però in una composizione sincera con l’abito sbagliato si sente che ha qualcosa d’interessante. Al contrario, una composizione senza sostanza, con l’abito perfetto, te la scordi dopo un minuto.

testo e foto di Emilio Esbardo

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