Intervista al Trio Metamorphosi

Foto: gentile concessione del Trio Metamorphosi

di Michela Buono

Ascoltando l’ultimo cd del Trio Metamorphosi, Piano Trios 1-2 di Robert Schumann, si ha la sensazione di ascoltare uno strumento solo anzicchè tre. La precisione negli attacchi, la fluidità sonora conferiscono al cd una chiarezza di intenti unica. Intervistandoli mi sono accorta del loro grande affiatamento, della loro visione musicale aperta e innovativa allo stesso tempo. 


Uno dei pochissimi gruppi di musica da camera, ancora unito, che esprime nella musica la propria visione di metamorphosi, intesa come cambiamento interiore profondo e di comunicabilità profonda. 

Dal 2005 al 2015 il vostro nome è stato “Trio Modigliani”. Quest’anno avete cambiato in “Trio Metamorphosi”. Metamorphosi intesa come cambiamento, evoluzione, cosa è cambiato all’interno del Trio?

In realtà alcune cose erano cambiate già prima ed hanno poi portato anche al cambiamento del nome, cosa insolita perché generalmente si cambia qualche componente all’interno del trio non il nome. Noi abbiamo voluto dare importanza a ciò che sentivamo negli ultimi tempi ossia ad un nostro cambiamento interiore, come persone e ci sembrava che cambiare il nome fosse un segno di questo cambiamento. Alcune persone sono rimaste sorprese ma la maggior parte ha reagito positivamente. A distanza di sei mesi questo esperimento ha dato i suoi frutti ed anche la pubblicazione del cd con la Decca ha influito positivamente su questa scelta. A ciò si è aggiunto un cambiamento di immagine, prima le nostre foto erano rigorosamente in nero, con il frac, ora sono in camicia e jeans ed anche in concerto spesso suoniamo così, è un segnale forte ma quando si è sul palcoscenico si è se stessi al di là del vestito che si indossa.

Anni prima che si formasse il Trio avete suonato da solisti in teatri prestigiosi quali la Philarmonie di Berlino, il teatro Alla Scala di Milano, la Carnegie Hall di New York. Com’è nata la decisione di costituirvi in trio?

Il nostro primo concerto risale al 1982 e abbiamo sempre suonato insieme, esibendoci in più di 500 concerti, scegliendo di studiare e di condividere il palcoscenico insieme. Fin da quando Francesco (Pepicelli) studiava i pezzi per violoncello, io da pianista ho avuto l’opportunità di crescere con il suono del violoncello e la musica da camera. Spesso abbiamo fatto lezione io con il suo maestro e lui con il mio. Ci siamo potuti permettere di eseguire dei repertori che spesso non si eseguono, perché non c’è una conoscenza profonda l’uno dell’altro. La ricercatezza dei fraseggi, anche molto dettagliati, è un modo di approfondire e di utilizzare la nostra conoscenza l’uno dell’altro fino ad arrivare ad una interpretazione molto sentita e condivisa. Il momento del concerto diventa un momento unico, irripetibile e condiviso, un “lasciarsi andare”, in cui la creatività “del momento”, ha un ruolo importante. Gli anni del duo Modigliani sono stati anni di “ricerca” profonda all’interno dello stesso. Il trio si è poi formato nel 2005 con Mauro Loguercio (violino) perché abbiamo trovato una persona che aveva la nostra stessa concezione musicale, un violinista con 14 anni di esperienza di quartetto d’archi e non solo. Avevamo suonato, in precedenza, con i “Violinisti italiani” ma era una altro tipo di lavoro e si “perdeva” un po’ l’unità del nostro duo. Era un modo diverso di intendere la musica. Petrassi a proposito del nostro primo cd scrisse: “il vostro insieme è vero e profondo siete “due”, “non uno più uno”.

Foto: gentile concessione del Trio Metamorphosi

Due cd risalgono al periodo in cui eravate il “Trio Modigliani”, con musiche di Beethoven e Brahms, il secondo cd contenente l’integrale dei trii di Giuseppe Martucci, com’è nata l’idea di avvicinarvi a questo repertorio?

Purtroppo in Italia la nostra esterofilia ci porta a tralasciare le nostre grandi realtà musicali che andrebbero, invece, valorizzate. Martucci è nato nel 1856 e quando ha cominciato ad operare nel 1870-1880, in Italia dominava il melodramma. Ha studiato a fondo la letteratura tedesca ed europea al conservatorio di Napoli e, in effetti, in lui non si può non riconoscere che, ad esempio, all’interno dei suoi due Trii c’è Schumann, Brahms, Fauré ed anche la “cantabilità” tutta italiana. La struttura tipica dei pezzi dell’800 tedesco la ritroviamo nei trii, della durata di 40 minuti, la concezione della forma deriva da un ripensamento delle tradizioni europee come, ad esempio, l’ultimo tempo del secondo trio e stato pensato come se fosse trattato “un’opera” non nel senso del linguaggio operistico ma come struttura. In Martucci la varietà di carattere, di sincerità e di originalità presenti nelle sue opere, gli hanno permesso di creare uno stile nuovo. Noi come duo, abbiamo un retroterra di studi di musica italiana molto approfondito, abbiamo inciso Casella, Respighi, Petrassi, Cilea e, qundi, ci è venuto naturale affrontare Martucci. Crediamo che sia arrivato il momento di presentarlo a livello europeo, nel nostro concerto di marzo suoneremo il primo trio di Schumann e il primo trio di Martucci, questo ci permetterà di far apprezzare Martucci. Noi non amiamo essere dei “replicanti”,  cerchiamo la nostra strada che ci consente, poi, di tirar fuori l’anima del pezzo. I segni all’interno del pezzo sono uno schema, fondamentale, ma non è tutto. All’interno della partitura vi sono moltissimi punti da analizzare, la costruzione della frase, l’armonia, i respiri, non possiamo limitarci a confrontarci solo su questi aspetti, dobbiamo pensare  anche al contenuto. Il nostro è un lavoro di recupero che punta alla profondità del testo musicale. Noi abbiamo avuto la fortuna di sfruttare i nostri talenti e, abbiamo la possibilità di trasmettere il messaggio che si trova all’interno delle opere musicali, in modo tale che il pubblico possa apprezzarne il contenuto.

Avete eseguito opere di compositori del calibro di Ghedini, Vacchi, Sollima, Chiti. Immagino che abbiate collaborato con alcuni di loro, cosa ha significato per voi questa esperienza?

Quando eravamo il Trio Modigliani abbiamo eseguito un pezzo di Sollima, Reperto XII, derivante da un frammento di un lieder di Schubert rielaborato, in cui coincidevano tradizione e modernità. Una melodia semplice e straordinaria al tempo stesso. Di pezzi commissionati c’è stato solo un pezzo di Chiti. Abbiamo  avuto alcune proposte da parte di compositori che ci hanno chiesto di poter scrivere per noi. Per quanto riguarda il lavoro di Vacchi, che suoneremo a Berlino, è stato scritto nel 2000 e si intitola “Orna buio ciel”. Il titolo nasconde un anagramma ossia Luciano Berio. Si è trattato di un omaggio al compositore che nel 2000 era ancora vivo, in effetti, Il pezzo rispecchia esattamente questo titolo. Ci è piaciuto molto e abbiamo deciso di metterlo in repertorio. Per come è stato pensato, questo pezzo deve molto al ‘900 storico tedesco e presenta una espressività molto interessante. Abbiamo voluto accostare Beethoven e Schumann insieme a Martucci e Vacchi nel concerto che daremo a Berlino nel marzo 2016.

Nel momento in cui si scrive un pezzo chi suona può intervenire?

Dipende dal compositore e dalla commissione, qualche volta si, qualche volta no. Se viene commissionato un pezzo da un esecutore, si può chiedere al compositore di poterlo visionare prima che sia finito. Se, invece, non è stato commissionato è il compositore che decide. Dipende molto anche dai contatti tra musicista e compositore. Nel caso del pezzo di Chiti, omaggio a Gesualdo da Venosa, abbiamo avuto lo spartito così come era ma con la possibilità di poterlo interpretare con grande libertà. Quando eravamo in duo abbiamo commissionato dei brani però, l’interazione era differente in quanto, avendo chiesto noi al compositore di scrivere, volevamo che il pezzo avesse determinate caratteristiche. Il compositore aveva la possibilità di comporre partendo da una nostra idea e sviluppando, poi, la propria visione musicale. I tre pezzi che abbiamo fatto commissionare a tre autori contemporanei differenti, per il venticinquesimo del nostro duo, originavano dalle tre variazioni di Beethoven per violoncello e pianoforte della fine del 1700. Ovviamente i 3 brani commissionati presentavano tre diverse scritture, noi li abbiamo poi accostati ai tre gruppi di variazioni di Beethoven e abbiamo ottenuto degli stili completamente differenti ma molto interessanti. La relazione tra compositore e musicista è più facile se si è solisti rispetto al duo. Certo che un compositore contemporaneo può risponderci ed uno del passato no ma non è detto che sia un vantaggio.

Siete tutti e tre docenti, riuscite ad insegnare il repertorio del ‘900 ai vostri allievi?

I programmi di conservatorio sono oggi un po’ più liberi rispetto al passato, far studiare un tempo di un trio di Martucci non è facile perché sono brani complessi, di difficile esecuzione, è problematico anche avere un gruppo di studenti che decida di studiare insieme. Questo è uno dei problemi della concezione della musica da camera in Italia che è vissuta come una materia marginale. Noi siamo un paese fondamentalmente individualista, non c’è attenzione al gruppo, abbiamo delle grandi stelle da un punto di vista solistico, ma molti gruppi di musica da camera che si sciolgono. Qui in Germania, invece, c’è una diffusione della competenza musicale enorme, è in questo modo che si forma il pubblico. Trovo che sia più bello raggiungere un risultato in duo o in trio che da soli.

Quali sono le difficoltà maggiori che trovate oggi a suonare in trio, vista la cattiva situazione economica presente?

Un solista è un singolo e si paga una persona, nel trio se ne pagano tre. E’ un costo maggiore per chi ospita e un guadagno minore per ciascuno dei tre musicisti. Dal nostro punto di vista sappiamo che il trio è meno redditizio rispetto al solista, però, il trio ha tre persone che pensano verso una determinata direzione, se il gruppo funziona bene ed è ben organizzato ha qualche chance in più rispetto al solista di poter suonare. L’organizzazione, nel nostro caso, è molto complessa ed accurata. Ci sono due aspetti che bisogna considerare: come va il mercato e quanto sei bravo ad inserirti in esso. In Italia il solista ha qualche chance in più, mentre la musica da camera non ha molta attenzione. E’ anche vero che ci sono molti più solisti che gruppi da camera, tutto sommato non ci sono grandi differenze tra un solista ed un gruppo. Dipende sempre da come si affrontano i problemi, da una lato sono portato a pensare che essendoci  poco lavoro debba preoccuparmi di più, dall’altro ho comunque la possibilità, vista la crisi, di propormi ni modo diverso, cercando di adattarmi alla situazione presente. Nonostante la crisi, spesso si hanno nuove idee e prospettive e si cerca di tirare fuori il meglio.

Il fatto di essere docenti cosa vi ha portato anche come concertisti?

 Anche il momento dell’insegnamento è  creativo ed unico, si ha la possibilità di poter condividere la propria esperienza musicale e il proprio percorso con i ragazzi. L’insegnamento è la continuazione naturale dello studio, dello stare in palcoscenico. Nella singola lezione il rapporto è a tu per tu ma, quando abbiamo dei gruppi, li ascoltiamo e ci mettiamo dalla parte del pubblico, è una possibilità maggiore di poter imparare, una sorta di rovesciamento dei ruoli che si ha soltanto quando andiamo ad ascoltare un concerto. Durante una lezione è l’allievo che sta suonando la “sua” musica. L’idea non è quella di far suonare agli altri la nostra musica ma la loro, fare in modo che siano loro a cercarla, aiutandoli con la nostra esperienza, indicando loro  una strada che serva da ricerca. La domanda da porsi è “Che cosa vuole dire questo ragazzo, cosa vuole comunicare?” Dire ad un ragazzo “fai questo e quest’altro” crea dei “replicanti” e noi non vogliamo questo, è come se la comunicazione morisse. Devono crescere tante cose insieme, musicali, culturali, perché non siamo fatti di una cosa sola, è una ricerca dell’essere umano attraverso queste opere d’arte che vanno in profondità.

Concerti e tournee nel 2016

Siamo stati in Sud America varie volte, in Giappone in duo ma non in trio. Ci siamo concentrati di più sul mercato europeo per vari motivi: i viaggi sono più contenuti, c’è meno stress, il mercato europeo è bello e molto vario. La metamorfosi, in questo senso, consiste nel fatto che prima era il duo Modigliani che andava dietro ai progetti proposti, ora è il trio che stabilisce i suoi progetti ed invita il resto del mondo a seguirlo e ad accoglierlo. Siamo sempre molto sensibili ed aperti al mondo esterno che ad ogni minima occasione può diventare una chance per la ricerca di un progetto.

Incisioni in programma nel 2016

Il prossimo cd con la rivista Amadeus uscirà a maggio o giugno, in collaborazione con il mezzo soprano Monica Bacelli e riguarderà i Canti scozzesi, cioè le arie scozzesi di Haydn e i lieder scozzesi di Beethoven. In pratica erano le canzoni di allora che qualche editore decise di voler pubblicare chiedendo a compositori illustri di scrivere l’accompagnamento. E’ una letteratura semplice e sterminata con il tocco di alcuni grandi compositori, noi ne pubblichiamo una piccola selezione: 7 arie di Haydn e 7 di Beethoven, oltre ad altre composizioni di Haydn e alle variazioni di Beethoven.

I video attirano di più dei cd?

Sono cose diverse, la nostra è una società legata molto all’immagine, il suono sembra quasi una “invasione”. Al momento attuale credo siano complementari, sono messaggi che arrivano in modo diverso e ad un pubblico diverso. Nel cd ho la possibilità di eliminare gli occhi e posso immaginare ciò che voglio essendo preso dal suono; nel video entra in gioco anche l’aspetto visivo che non è secondario. Se comunico un sentimento in sala da concerto lo posso comunicare gestualmente con il corpo, è l’energia che è diversa perchè in concerto si respira la stessa aria, nel cd no.

Non mi resta che augurarvi di tutto cuore un ulteriore successo per il 2016 e la realizzazione dei vostri desideri e aspettative.

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