Profughi a Milano: storie in transito dal Binario 21

Foto della Comunità di Sant’Egidio

di Silvio Mengotto

Da oltre tre mesi la Comunità di Sant’Egidio ogni sera accoglie profughi giunti a Milano da tanti paesi. Lo spazio di accoglienza è quello messo a disposizione del Memoriale della Shoah (Binario 21) nella Stazione Centrale. In questo breve transito verso il Nord dell’Europa abbiamo raccolto le storie dei siriani Abdurrahmane e Aiman, del sudanese Addouma, del palestinese Mahamoud, dell’eritreo Efrem, dell’iracheno Firas e di  altri profughi in cerca di  futuro.


L’emergenza

Nel loro transito verso il Nord dell’Europa vengono accolti ragazzi, famiglie, uomini, donne e bambini che scappano dalla guerra e dal terrorismo. A loro viene fornito del cibo, un letto e vestiti puliti, ma anche ascolto, un sorriso e condivisione. Lo scorso giugno i profughi aumentavano giorno dopo giorno molti dormivano per la strada. Una parte dell’accoglienza è stata organizzata dal Comune e precettata dal Viminale. «Questo – dice Stefano Pasta della Comunità di Sant’Egidio – in concomitanza con la chiusura della frontiera francese a Ventimiglia. In Stazione Centrale la presenza dei profughi era fortissima. Di fronte a questa pressante realtà la Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Fondazione Memoriale della Shoah di cui fa parte, ha proposto l’apertura dei locali per l’accoglienza vicino al Binario 21 da dove partivano ebrei e antifascisti deportati nei lager nazisti. Proposta accolta dalla Fondazione e condivisa con Liliana Segre che, da bambina, partì dal Binario 21 per Auschwitz».

Foto della Comunità di Sant’Egidio

A giugno scattata la grande emergenza a Milano. Dal 22 giugno al Memoriale è iniziata l’accoglienza. Mediamente vengono ospitate 40 persone a sera. La gestione dell’accoglienza è notturna dalle 20.00 alle 8 del mattino e viene coordinata da gruppi di volontari itineranti. Ai profughi viene letto un messaggio di ospitalità e benvenuto: “Sappiamo anche – dice il messaggio – che il tuo viaggio continua, ma questa sera puoi riposarti qui. Ora sei tra amici; vorremmo che la tua vita e quella di ogni persona fosse accolta, rispettata e protetta, per questo oggi siamo qui insieme a te. Il luogo in cui ti trovi ha una storia: da qui, nel 1944, partivano gli Ebrei italiani per il campo di concentramento di Auschwitz, e la maggior parte dei milanesi era indifferente a questa tragedia. Oggi siamo in questo luogo, perché siamo vicini al dolore di chi fugge da paesi senza pace alla ricerca di un futuro migliore. Siamo certi che la solidarietà sia l’unico modo per costruire un mondo di pace. Siamo tutti volontari: la Comunità Ebraica di Milano, la Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Anglicana di Milano, e tante altre persone di tutte le religioni e fedi; siamo con voi e preghiamo per voi. Ancora una volta, sei il benvenuto. Pace, Shalom, Salam”.  Sembra una rivincita della storia. «Questo per noi – precisa Stefano Pasta – è il modo di vivere la memoria. Oggi il Binario 21 è parte della memoria milanese, unico Memoriale in Italia, inaugurato dal presidente della Repubblica. L’accoglienza al Memoriale ha anche un valore simbolico». 

E’ un luogo di emergenza e di appoggio. C’è una collaborazione con il Comune di Milano e altre associazioni «ma non prendiamo – puntualizza Stefano Pasta – alcun fondo e tutto si regge sul volontariato gratuito».  

«Abbiamo rischiato – dice Giuliana Canti volontaria al Memoriale – di vedere quelle brutte scene che oggi si vedono in televisione (Ungheria), cioè una gran folla di profughi che è venuta addosso alla città».

Rossana Bonassina, volontaria in un quartiere di Baggio, con un gruppo di adolescenti collabora all’accoglienza ogni domenica sera. «Un gruppo di 5/6 adolescenti – dice Rossana – si reca al Memoriale, prepara la cena, le brande, i servizi igienici. Svolgiamo un minimo di accoglienza. Qualcuno parla inglese. Dopo il benvenuto si offre la cena. Abbiamo portato anche abiti, scarpe, ciabatte, magliette, pantaloni. Il servizio termina alle 23.30 circa». Pochi giorni di sosta per proseguire il viaggio verso la Germania, Svezia, Norvegia o l’Inghilterra. Sono più di 3000 le persone transitate.

Le storie

«Oltre alla distribuzione del pasto e vestiti – dice Assunta Vincenti volontaria al Memoriale – abbiamo ascoltato i loro racconti impressionanti. Un siriano in fuga, con altre persone, da Damasco ci ha raccontato di essere stato sfiorato dalle schegge di un bombardamento. Qualcuno del gruppo è rimasto ferito, ma i militari hanno seppellito i morti insieme ai feriti». Due famiglie yazide hanno visto la carneficina dell’Isis in azione con i loro occhi rimanendone terribilmente scosse. «Una donna – dice Giuliana Canti – era un sacco vuoto, non reagiva, non beveva. Ho avuto un’intuizione. Gli yazidi sono per metà cristiani e per metà musulmani. Ho fatto il segno della croce, è stato l’unico momento dove la donna ha risposto facendo il segno della croce. Ha avuto un lampo di vita negli occhi». Adil, giovane musulmano, ogni sera ha pazientemente raccolto molte di queste storie in transito e tradotte in italiano. Storie di persone coraggiose, di riscatto che fuggono dalla inaudita violenza della guerra e del terrorismo dell’Isis.

Abdurrahmane

Abdurrahmane è un giovane siriano di 25 anni. Lavorava in una falegnameria ad Aleppo. Agli inizi della Primavera araba non credeva che potesse allargarsi anche in Siria.

«Non potevo immaginare – dice Abdurrahmane – che il popolo siriano potesse ribellarsi contro un governo traditore. Poi sono iniziati i problemi, all’inizio con manifestazioni dapprima estemporanee, poi si sono scontrate con la mano pesante del governo passando dall’essere pacifiche all’essere più aggressive. Le persone hanno iniziato a morire una dopo l’altra. Queste manifestazioni si sono propagate da un paese all’altro, da una città all’altra, fino ad arrivare ad Aleppo, Damasco, Homs. Si sono verificate molte aggressioni contro i manifestanti, ogni giorno più violente.  Quando il governo stava perdendo la fiducia del popolo, ha iniziato a chiedere aiuto ai Paesi che lo sostengono, all’inizio l’Iran, poi Hezbollah (libanese), passando dalle richieste del popolo a una guerra di religione per colpa di gruppi armati sciiti in Siria. Il governo ha iniziato a usare tutti gli strumenti in suo potere, per esempio l’aviazione, i carri armati, gli elicotteri, l’artiglieria pesante. I martiri sono diventati più numerosi da entrambe le parti, la maggior parte cittadini indifesi». La situazione precipita in tutto il paese e Abdurrahmane decide di emigrare nella vicina Turchia dove matura la decisione di partire per l’Europa. Conosce dei trafficanti che lo aiutano al folle prezzo di 7000 dollari.

Foto della Comunità di Sant’Egidio

«Il viaggio – continua Abdurrahmane – mi è costato tantissimo rispetto al mio stipendio. Ho deciso di trovare questa somma a qualsiasi costo. Dopo due anni, lavorando e contando anche su qualche risparmio, alla fine ho raggiunto la cifra necessaria». L’imbarco è previsto a Mirsin. I trafficanti portano Abdurrahmane da Istambul a Bodrum, che dista da Mirsin 17 ore di viaggio. «Ci siamo imbarcati – conclude Abdurrahmane – su un barcone molto malconcio, eravamo 150 persone su una barca di circa 20 metri. Il barcone ha viaggiato due giorni senza mai fermarsi. Improvvisamente il guidatore ha cambiato rotta verso la Grecia perché nessuna nave dell’esercito ci era venuta a prendere. Quando ci siamo accorti del cambio di rotta lo abbiamo minacciato, allora si è arreso, si è buttato in acqua ed è scappato, lasciandoci in balia del mare. A una certa ora della notte un profugo è sceso a guidare. Ci siamo accorti che stavamo imbarcando acqua e affondando. Abbiamo lanciato l’SOS e chiamato la Marina italiana ed è stata la nostra salvezza. E’ stato un miracolo, grazie a Dio, perché eravamo lontanissimi dalla costa italiana».

Addouma

Addouma è un giovane sudanese di 21 anni, con la famiglia di 5 persone viveva in un paese del Sudan sotto una dittatura che penalizza la vita del popolo e di moltissimi giovani. Addouma matura la decisione di cambiare radicalmente la vita lasciando il suo paese. «Ho preso questa decisione – dice Addouma – sapendo che poteva essere la mia fine o la mia chance di un cambiamento. Ben sapendo che tanti ragazzi non hanno mai fatto ritorno perché sono morti o in quel grande mare che è il deserto, che lascia passare quelli che vuole, o nel Mediterraneo».

Foto della Comunità di Sant’Egidio

Attraverso spregiudicati trafficanti egiziani e siriani arriva in Egitto, prima al Cairo, poi in una località sconosciuta chiamata 16 Ottobre per l’imbarco. Il viaggio gli costa 2500 dollari. Nel deserto, con altre persone, rimane chiuso in una macchina sotto il sole per quattro ore. L’imbarco avviene alle quattro del mattino. «Abbiamo incontrato molte difficoltà – dice Addouma – , la barca era piccola, ci hanno picchiato come bestiame e insultato. Più o meno la metà delle persone è riuscita a salire, l’altra metà è scappata per la paura, la maggior parte di noi non aveva mai visto né il mare, né una barca. Dopo 6 o 7 giorni in mare, ci hanno spostato su un’altra barca più grande dove c’erano già altre persone. Passati 3 giorni abbiamo perso tutto il cibo e l’acqua che avevamo mentre la barca imbarcava acqua. Una donna è morta per la sete, la febbre e la fame, l’ho toccata ed era caldissima per la febbre. Il corpo è rimasto con noi per 4 giorni mentre eravamo fermi in mare».

Nell’attraversata lanciano l’SOS. Un primo soccorso di acqua e cibo viene dato da una nave olandese. Poi subentra il soccorso della Croce Rossa che porta sulla terra ferma tutti i profughi. «Io vorrei – conclude Addouma – andare in Norvegia. Vorrei ringraziare la Croce Rossa e voi per l’ospitalità e l’accoglienza. Io non so parlare l’italiano per potervi ringraziare tanto per tutto quello che fate per noi tutti. Forse ci separeremo e io partirò; forse ci vedremo ancora o forse non ci vedremo più, ma una cosa sola rimarrà nel mio cuore per sempre: il ricordo del vostro aiuto. Spero che Dio vi dia la forza e il coraggio di continuare. Grazie».  

Aiman

Aiman abitava in un campo profughi di Yarmouk a Damasco. Con la moglie e i due figli piccoli ha conosciuto prima la guerra e il terrorismo in Siria, poi il sequestro con rapina in Libano.

Il 17 dicembre 2012 il campo di Yarmouk viene « assaltato dai miliziani – dice Aiman – con gruppi armati terroristi, tra i quali anche Jabht Elnosra. Contemporaneamente l’esercito governativo di Bashar el Assad  inizia a bombardare il campo dove si trovavano questi gruppi, durante i bombardamenti sono stati uccisi anche dei civili palestinesi».

Foto della Comunità di Sant’Egidio

Sia il governo di Assad che i gruppi terroristici reclutano sul campo «ragazzi con la forza – riprende Aiman -, a uccidere chi non voleva andare con loro, rubare i soldi e i beni dei cittadini e rapire i bambini. Ammazzavano chiunque si opponesse». Con tutta la famiglia Aiman fugge in Libano.

« Un giorno – ricorda Aiman – mi hanno fermato per strada dei banditi, mi hanno preso il passaporto, derubato di tutto quello che avevo: documenti, la carta di identità, con me  hanno rapito anche il mio amico. Ci hanno portato in un posto sconosciuto. Non avevo più niente, né macchina, né casa, né soldi, né documenti, nulla di quello che può avere una persona in un paese normale».

Per imbarcarsi in Libia prende accordi con un trafficante. In 450 vengono imbarcati. «Dopo 32 ore di viaggio – dice Aiman – il motore si è rotto; abbiamo chiesto aiuto ed è arrivato un elicottero italiano con una nave e ci hanno salvato. Quando ci hanno fatto scendere dalla nave è stato il giorno più nero della mia vita perché mi hanno preso le impronte con la forza».

Foto della Comunità di Sant’Egidio

Causa di quelle impronte la vita successiva di Aimen si è complicata perché continuamente trasferito di paese in paese: Svezia, Danimarca, Milano, Roma e ancora Milano dove vorrebbe partire per la Germania. «In data 9 gennaio 2015 – conclude Aiman – mia moglie ha dato alla luce il nostro terzo bambino. Abbiamo deciso di chiamarlo come mio fratello Mahamoud. Ho tanta voglia di abbracciarlo e vederlo. Mi manca tutta la mia famiglia».

Mahamoud

Anche il palestinese Mahamoud viveva nel campo di Yarmouk a Damasco. Con moglie e figli fugge dalla guerra e dai combattimenti fra le due parti. Prima emigra in Libano, poi nel Sudan, un trasferimento che gli costa 1500 dollari. «Sono arrivato in Sudan – dice Mahamoud – viaggiando lungo la via del deserto verso la Libia. Ho pagato ancora 2200 dollari. Sono partito il 17 maggio 2015 dal Sudan dopo l’accordo con i samsar, i trafficanti. Lungo il viaggio nel deserto abbiamo trovato delle bande armate che ci hanno derubato di soldi, passaporti, cellulari, gioielli delle donne, tutto quello che potevano prendere. Il viaggio nel deserto è come toccare per la prima volta la morte, è il viaggio della “prima morte”». Per imbarcarsi i trafficanti samsar portano Mahamoud a Zdara una città lungo la costa libica. « Adesso – riprende Mahamoud – inizia il viaggio della “seconda morte”. C’erano tante bande armate, affiliate a Daesh (Isis), un gruppo che si chiama L’alba della Libia, Ansar el Sharia e altre. Grazie a Dio siamo arrivati a Zdara. Abbiamo pagato la somma di 1100 dollari. Ci hanno portato sul barcone nel cuore della notte, eravamo in 680 a bordo, c’erano uomini, donne, bambini. Il giorno dopo, a mezzogiorno sono arrivate delle navi militari proprio mentre nel barcone stava entrando acqua. Ci hanno salvato, grazie a Dio, per fortuna nessuno si è fatto male». Dopo una brevissima sosta a Milano Mahamoud parte per la Germania «come profugo – conclude Mahamoud – che scappa dalla guerra in Siria per poter vivere io, mia moglie e i miei due figli in sicurezza e stabilità, lontano dalla guerra e dalle uccisioni»

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Efrem

Efrem ha 29 anni di nazionalità eritrea. Emigra nel Sudan, poi in Libia seguendo la via del deserto. « Questo viaggio – dice Efrem – è durato un mese. In questo tempo abbiamo attraversato molte difficoltà e sono morte tante persone, tante donne e bambini per mancanza di acqua e cibo. Siamo stati trattati malissimo dai mediatori libici, in arabo samsar».

Per un mese Efrem si ferma ad Ajdabia dove conduce una vita durissima. «Era sopravvivenza – dice Efrem – non vita. Un’aggravante in più era la mancanza di soldi per poter trattare con i mediatori».

Lungo la strada per Tripoli «abbiamo incontrato – ricorda Efrem – i terroristi dell’Isis (Daesh). Il camion che era davanti al nostro è stato assaltato dai terroristi. L’autista del nostro secondo camion, quando ha capito cosa succedeva, si è fermato a una certa distanza. Abbiamo visto che sparavano a raffica e iniziavano a sgozzare le persone. I terroristi sono riusciti ad ammazzare 30 persone, l’autista libico i mediatori libici, tutti quanti. Hanno dato fuoco ai corpi e al camion. Noi siamo vivi perché eravamo dietro di pochi minuti, questa è stata la nostra fortuna. Se fossimo stati i primi ci avrebbero ammazzato. Alcuni di noi sono scappati a piedi. L’autista non voleva più andare avanti». Dopo qualche giorno nel deserto raggiungono spaventati, e a piedi, Tripoli. «La situazione in Libia – riprende Efrem – era terribile, eravamo allo sbando non avendo più mediatori. Non riesco neanche a trovare le parole, difficile anche da spiegare. Ho visto l’inferno coi miei occhi in Libia. Noi ci trovavamo tra le bande e il deserto da una parte, e Daesh dall’altra parte. Questo viaggio è stato per me quasi impossibile. Scusami, non riesco a continuare».

A questo punto Efrem si è messo a piangere a ha preferito non continuare il suo racconto. 

Firas

Firas è un giovane iracheno di Erbil. Laureato in lingua aramaica all’Università di Baghdad. Causa la sua fede cristiana ha avuto molti problemi e pressioni psicologiche. Quando i terroristi di Daesh hanno sequestrato la sua casa ha avuto un motivo in più per fuggire.

«Da Erbil, caduta in mano a Daesh, – ricorda Firas – sono scappato con mia madre verso Baghdad vivendo in un campo temporaneo di cristiani. Abbiamo perso quel pochissimo che avevamo. Ho iniziato a studiare e contemporaneamente ho trovato un lavoro per poter mantenere mia madre. La mattina studiavo, la sera lavoravo fino alle 22. A causa di tutta questa pressione ho deciso di partire verso il Kurdistan. Sono rimasto 20 giorni in Turchia, poi è iniziato il viaggio per mare, durato 7 giorni, finché ci hanno salvati e portati a Brindisi». 

16 ottobre ’15                     

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