di Emilio Esbardo
Jürgen Schadeberg, nato il 1931 a Berlino, è un fotografo di fama internazionale, a cui viene riconosciuto il merito di aver creato e sviluppato il fotogiornalismo in Sudafrica, dove si era trasferito nel 1950.
Famoso è divenuto soprattutto per aver fotografato la scena Jazz di Sophiatown e per aver ritratto personaggi fondamentali per la lotta contro l’Apartheid, quali Nelson Mandela e Walter Sisulu. I suoi maggiori lavori sono stati pubblicati dalla rivista Drum, dov’era impiegato come redattore per la fotografia. “Drum” è il titolo anche dell’omonimo film, la cui trama si basa prevalentemente su Jürgen Schadeberg e sul suo amico Henry Nxumalo. Entrambi hanno lottato contro l’Apartheid.
A Henry ciò è costato la vita; Jürgen, invece, è stato costretto ad abbandonare il Sudafrica nel 1964. Da allora in poi ha vissuto in differenti luoghi come Inghilterra e Spagna, lavorando come fotografo per differenti riviste e quotidiani. È stato anche docente presso numerose università. Attualmente vive a Berlino. Ci ha accolti cordialmente per rilasciarci un’intervista, che rispecchia una parte importante del ventesimo secolo ed è testimonianza di un modo di fare fotogiornalismo che è quasi scomparso.
Quali sono i suoi ricordi di Berlino durante i bombardamenti?
Sotto certi aspetti i miei ricordi non sono così piacevoli. A dieci anni udivo alla radio un uomo che era sempre arrabbiato e che diceva costantemente brutte parole. Io non capivo perché lo facesse. Quando andavo al cinema a guardare il telegiornale, anche lì si bestemmiava tutto il tempo. In seguito ho scoperto che quest’uomo si chiamava Hitler. Di fronte agli altri io affermavo “dal modo in cui parla si comprende immediatamente che quest’uomo è matto”. Al ché le persone mi avvertivano di stare attento a ciò che dicevo, se non volevo finire nei guai seri. Anche gli interi bombardamenti non sono stati affatto piacevoli ma sono sopravvissuto.
Poi la decisione di trasferirsi in Sudafrica. Perché?
Per spirito di avventura, volevo lasciare la Germania. Mi sarei trasferito volentieri a New York, dove esisteva il fotogiornalismo ed era una città eccitante. Ma non volevo andarci da tedesco: in quel momento, nell’immediato dopoguerra, non eravamo molto ben visti nel mondo. Attraverso contatti di famiglia è stato più semplice per me andare in Sudafrica. Non sapevo esattamente cosa mi aspettava. I quotidiani non pubblicavano molte notizie su questa nazione e sulla sua situazione politica. In Germania, la stampa dopo la seconda guerra mondiale si occupava soprattutto della propria nazione. Io sapevo solamente che lì vi erano i leoni e che tutto era stupendo: vi era un bel clima caldo e molto sole. Di più non sapevo.
Sul treno per Johannesburg, se non erro, si è imbattuto in un fanatico nazista?
Per caso finii nel treno che partiva da Kapstadt diretto a Johannesburg. Era un lungo tratto con un treno lentissimo. Nel treno vi era il massimo esponente di un movimento politico, che simpatizzava per Hitler e la Germania nazista. Questi parlava fluentemente tedesco ed io, all’inizio, ne fui contento perché potevo esprimermi di nuovo nel mio idioma. Per 10 giorni avevo viaggiato in una nave dall’Inghilterra fino a Kapstadt, dove si poteva solo parlare in inglese. Il tipo, poi, si è rilevato un nazista al 100%, aveva incontrato personalmente Hitler e Göring. Adorava Hitler. Ho pensato “Oddio, dove posso andare adesso? Devo dileguarmi”. È stato uno shock. Col senno di poi è stato un bene, perché ho capito immediatamente cosa stava accadendo in Sudafrica. In 10 minuti ho appreso l’intera tragica situazione. Quest’uomo mi ha raccontato velocemente, cosa avevano in mente. Erano già al governo da due anni, quando io sono arrivato nel 1950.
Potrebbe descriverci la situazione razziale?
Negli anni ’50 l’Apartheid era molto forte. Inoltre le persone di colore non avevano possibilità di scambiarsi informazioni tra di loro. Nella nostra rivista “Drum” hanno trovato un mezzo per comunicare. Abbiamo realizzato reportage su musica, sport, politica, cultura, società e, naturalmente, sull’Apartheid. Fino a allora nessun giornale aveva mai scritto sulla gente di colore. Anche ai concerti jazz non è mai apparso nessun giornalista bianco. Lì vi era un vuoto informativo, che la nostra rivista ha colmato.
E il suo lavoro come redattore per la fotografia per la rivista Drum?
È stato un periodo difficile. Eravamo molto isolati. L’ufficio di Drum era un’isola, parlavamo la stessa lingua, avevamo le stesse opinioni, lì non c’era Apartheid. Fuori dell’edificio sì. Quando un bianco entrava rimaneva di sasso nel vedere uomini di colore che utilizzavano il telefono o scrivevano articoli. Non capivano.
Cosa ne pensa del film Drum? Rispecchia fedelmente Sophiatown?
Nella realtà a Sophiatown non vi erano molti club e locali. Nel film hollywoodiano Drum, dove vengo rappresentato anch’io, hanno esagerato tutto. In una scena siedo in un nightclub con una ragazza sulle mie gambe: tutti avevamo vestiti puliti ed eleganti e danzavamo. Non era vero. Intorno a noi regnava la povertà. Sophiatown, il quartiere di Johannesburg, era internazionale. Uomini dal colore della pelle differente, vivevano lì ed erano proprietari degli appartamenti. Negli altri quartieri ciò era vietato. Regnava una bella atmosfera, che non piaceva al governo, che, alla fine ha sfrattato i “neri” ed ha abbattuto le loro case.
Perché ha deciso di fotografare la scena jazz di Sophiatown? Il jazz ha una valenza simbolica?
Sono appassionato di jazz. Già a Berlino, durante i bombardamenti, ascoltavo nei rifugi antiatomici dischi di Luis Armstrong. Agli altri non piaceva. Mi chiedevano perché ponevo questa musica da giungla. In Africa poi era vietato alle persone di colore di suonare jazz di fronte ai bianchi, che venivano isolati socialmente, culturalmente e politicamente. Il jazz era per loro espressione di libertà.
Com’è Nelson Mandela?
L’ho fotografato la prima volta nel 1951 a Bloemfontein durante una conferenza ANC. Era stato appena nominato capo della sezione giovanile della campagna dell’ANC, per dimostrare contro precise leggi. Era una persona molto influente e infondeva tranquillità.
Lei ha attraversato l’Africa in autostop. Qual è la sua impressione di questo continente e della sua gente?
La gente è terribilmente gentile, ride molto ed ha un forte senso dello humor. Sono naturali. È stato interessante quando ho attraversato l’Africa in autostop: Senegal, Mali, Ghana, Camerun, Africa centrale, Congo, Ruanda, Tanzania, Kenia. In Africa occidentale sono stato nella giungla, dove uomini e donne indossavano stoffe e vestiti dai colori stupendi. Mi sono sempre chiesto da dove provenissero. Poi ho visto gli insetti, ad esempio i coleotteri. Da loro provengono i colori e il disegno. Avevano un profondo senso per la natura, che si riflette anche nella loro musica quando siedono assieme e cantano. Durante il mio viaggio attraverso l’Africa sono giunto in un piccolo villaggio abitato da persone ospitali, che mi hanno offerto di pernottare in una piccola capanna. All’interno, a causa del calore, era tutto così appiccicoso, che non riuscivo a prendere sonno. Mi sono disteso fuori della capanna. Il mattino seguente gli abitanti del villaggio si sono arrabbiati moltissimo. Secondo le loro credenze non si doveva dormire fuori, perché ciò attraeva i fantasmi.
Lei poi ha fotografato in Inghilterra e ha vissuto il passaggio dalla fotografia in bianco e nero al colore.
Ho fotografato per 20 anni in Inghilterra. Era interessante. Era il periodo in cui il modo di fare fotografia stava cambiando radicalmente. Infatti agli inizi degli anni ’60 si diffuse la televisione a colori. Così i maggiori quotidiani, quali The Sunday Times, The Observer, The Telegraph, Frankfurter Allgemeine Zeitung decisero di pubblicare, assieme ai loro giornali, allegati a colori, per ottenere facilmente sponsorizzazioni. Noi fotografi abbiamo dovuto quindi passare alla fotografia a colori e per questo bisognava utilizzare le macchine fotografiche reflex con i filtri. L’intera tecnologia si è evoluta velocemente.
Quali sono le città che le sono piaciute maggiormente?
Mi sono piaciute di più New York e Berlino. Berlino è oggi come New York. Molte persone si trasferiscono qui. È una città internazionale. Il dentista, che vive nel mio edificio, è italiano, il suo assistente russo e la segretaria spagnola. Pienamente internazionale. È bello e positivo.
A proposito di Berlino. Lei era in città quando furono iniziati i lavori del Muro?
Nel 1961 sono ritornato in visita a Berlino. Avevo vissuto 11 anni in Africa senza interessarmi minimamente a ciò che accadeva in Europa. Durante la mia visita berlinese avevano appena iniziato a costruire il Muro, cosa che mi scosse molto. Vi era una tale atmosfera come se ci si sedesse sotto la polvere da sparo. Vi era la sensazione che tutto potesse saltare in aria da un momento all’altro. Vi era una precisa calma, che faceva presagire un’esplosione improvvisa. Io ho passeggiato lungo il Muro. Le persone stavano lì, mute ed immobili, e guardavano oltre il Muro. Era difficilissimo da accettare, che la città venisse divisa in due.
Qual è la differenza tra il giornalismo odierno e quello del passato durante la sua giovinezza?
In quegli anni la fotografia documentaristica e il fotogiornalismo erano al loro apice. In America c’erano Life, Look, Saturday Evening Post, in Inghilterra Picture Post, in Germania Stern, in Francia Paris Match. Negli anni ’60 hanno chiuso Life e Look. Molte cose sono cambiate quando è giunta la televisione. Oggi probabilmente non c’è molto fotogiornalismo. C’è più la fotografia per la stampa. Solo nella fotografia di guerra, ad esempio nei Paesi arabi, si può ancora parlare di fotogiornalismo.
Lei scatta soprattutto in bianco e nero, perché?
A me piacciono di più le foto in bianco e nero. Allora fotografare a colore era più difficile, bisognava utilizzare una macchina fotografica reflex, che faceva molto più rumore. Inoltre si dovevano utilizzare molti filtri, ognuno dei quali corrispondeva al tipo di luce che vi era nell’ambiente dove fotografavamo. Ad esempio in un supermercato la luce era verde. Ad occhio non lo si percepisce ma è così. Ciò significa che bisognava utilizzare il filtro magenta Oggigiorno con il digitale si può ottimizzare tutto con il computer.
La fotografia può essere considerata arte?
Io non so che cosa sia l’arte. La fotografia è fotografia, la pittura è pittura, un musicista è un musicista. Se poi un fotografo è anche un artista, questo lo decidono le persone che lo osservano. Oggigiorno tutti si definiscono, con facilità, artisti. Io non so cosa passi nelle loro teste e cosa intendono per arte.
Cartier-Bresson affermava che il ritratto è il genere più difficile da trattare in fotografia. Cosa ne pensa?
Dipende dal fotografo, ciò che per lui è più difficile. Il ritratto lo trovo molto interessante. Più difficile, per me, è la fotografia di documentazione, ritrarre la vita delle persone, che si muovono insieme agli oggetti, dove c’è attività, movimento. Lì bisogna trovare il momento giusto. Bisogna reagire al momento esatto e lo trovo molto eccitante.
Lei è stato definito il padre del fotogiornalismo africano. È d’accordo?
In realtà non saprei. Non posso affermarlo. In quel periodo quando giunsi in Sudafrica, la fotografia documentaristica non esisteva. Le persone non avevano esperienza in questo campo. Erano esperti nel ritratto, nel realizzare foto nei loro studi. Nessun uomo di colore avrebbe avuto la possibilità di ottenere un posto di lavoro nella fotografia documentaristica.
Fotografa sempre con una Leica?
Sì, io fotografo sempre con una Leica, tuttavia ho un esemplare digitale.
Se si osserva una fotografia senza conoscerne l’autore, si può affermare se è stata scattata da un uomo o da una donna?
Questa è una buona domanda. Sì qualche volta lo si può affermare. Non sempre però. Prendiamo ad esempio la fotografa sudafricana Jodie Bieber, che ha appena vinto un premio prestigioso. La sua foto sulla copertina di Time, che mostra la donna africana senza naso, ha un forte impatto visivo. Lei ha fotografato molte donne che sono state brutalmente maltrattate. Sono state le stesse donne a darle il permesso di fare gli scatti. Ad un uomo avrebbero detto sicuramente di no. Come un uomo riesce a muoversi in una situazione sociale e personale, lo può fare anche una donna a modo suo. In una situazione normale non è però, così facile affermarlo.
Pensa che la fotografia possa cambiare il mondo?
Sì. Io sono sicuro che in un certo senso lo abbia già fatto. Le distanze si sono accorciate anche grazie alle immagini che ci danno la possibilità di conoscere luoghi e situazioni lontani. Attraverso la fotografia gli uomini possono guardare il proprio passato, apprendere la storia. Ad esempio, possono vedere che aspetto avevano i loro predecessori. Ed è molto importante. Attraverso le foto si possono conoscere le brutalità delle guerre. Ciò porta la gente a riflettere su ciò che accade nel mondo. Probabilmente si possono individuare le persone che si sono comportate brutalmente durante un conflitto bellico e processarle. Il fotografo Muybridge è stato il primo ad aver fotografato i movimenti di un cavallo. Prima vi erano solo quadri, dove i loro movimenti venivano rappresentati erroneamente. Attraverso la fotografia possiamo imparare molto su noi stessi.
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