di Michela Buono
Ci sono persone che vengono al mondo pagando un caro prezzo in termini di sofferenze e privazioni, chi, invece, paga il “conto” nel corso della propria vita.
La sofferenza derivante da una malattia può rendere una persona più forte o più vulnerabile, ciò dipende da innumerevoli fattori ma, senz’altro, il dolore fisico risulta essere il più “visibile” rispetto ad altri. Se vediamo soffrire qualcuno riusciamo anche a percepirne “l’intensità” perché sappiamo quanto il nostro corpo possa fare male e ci immedesimiamo in ciò che prova l’altro. Il dolore dovuto alla perdita di una persona cara o anche del nostro pet, ci ricorda che nessuno nella vita è eterno e che non possiamo mai dare nulla per scontato.
La mancanza di un contatto visivo o di altro tipo crea quel senso di vuoto che sconfina in un dolore acuto e impossibile da spiegare. Mi sono sempre chiesta come potrebbe essere una vita senza dolore e, onestamente, non riesco ad immaginarla. Se tutto ciò che ci accade ha un senso, significa che abbiamo una qualche lezione da imparare, che spesso non comprendiamo e che probabilmente ci permetterà di “evolvere” in modi a noi sconosciuti.
La sofferenza vista come una sfida, uno stimolo a maturare, sembra volerci ricordare che non esiste vittoria senza una guerra e che ogni cosa che intraprendiamo non è mai priva di insidie. Nessuno di noi soffre allo stesso modo e non esiste un “metro” che ne misuri l’intensità, solo quando veniamo messi a dura prova dalla vita capiamo cosa significa soffrire e quanto si possa essere soli e vulnerabili. Esiste un qualcosa, però, che va oltre la semplice definizione di “dolore” e che la più accurata delle descrizioni non riuscirebbe a spiegare. Determina una lacerazione così profonda in chi lo prova che si ha la sensazione di non uscirne mai del tutto. Sembra che la sofferenza sia ovunque la persona posi lo sguardo e che la avvolga come in un mantello invisibile, tutto trasuda dolore e il respiro stesso diventa affannoso.
Succede, alle volte, di diventare più intolleranti verso gli altri e perfino più “cattivi” perché si ha la sensazione di non essere creduti o, peggio, di essere gli unici al mondo a soffrire così tanto. Nella realtà non è così ma l’amarezza che ne deriva porta a chiedersi se questo d’animo sia eterno o si concluda in qualche modo. A volte la “luce” che dovrebbe trovarsi fuori dal tunnel è talmente fioca che vederla risulta difficile. Forse il punto fondamentale consiste nel chiedersi cosa si ottiene da così tanto dolore e non “quanto dolore si debba ancora sopportare”.
La forza che occorre per uscirne è già di per sé una sofferenza ma costituisce uno stimolo a non arrendersi. Se il dolore rende più forti significa che una parte di noi ne esce rafforzata ed è pronta ad esultare per la battaglia vinta. Le lacrime restano un ricordo quasi annebbiato della nostra fragilità e il tempo che passa ne attenua la tensione provata. Non neghiamo a noi stessi la possibilità di una rinascita che, se pur pagata a caro prezzo, trasforma le nostre vite in modi impensati e a volte più felici.
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