Importanza delle tradizioni e delle proprie radici culturali – Intervista a Jason Moran – Concerto: The Harlem Hellfighters

Jason Moran – foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Il concerto clou del Jazzfest 1018, dal mio punto di vista, è stato quello di Jason Moran intitolato The Harlem Hellfighters, realizzato su richiesta di una commissione transatlantica in onore del musicista e soldato afroamericano James Reese Europe, il quale, grazie al suo carattere visionario, è riuscito, agli inizi del 1900, a sviluppare e a diffondere il jazz a livello internazionale. 


Oggi il suo nome è scivolato nel dimenticatoio e non viene neanche evidenziato nelle migliori antologie. James Reese faceva parte del 369° reggimento di fanteria, passato alla storia come Hellfighters di Harlem, appartenente alla Guardia Nazionale dell’Esercito di New York e formato prevalentemente da afroamericani arruolati nell’aprile 1917 durante la prima guerra mondiale, ma non come forze di combattimento a causa della segregazione razziale.

Ciò nonostante, furono utilizzati al fronte nelle milizie francesi, dando prova del loro coraggio. Essi furono tra i primi a sostenere le lotte per i diritti civili, per l’uguaglianza razziale e per il riconoscimento del contributo culturale della comunità afroamericana apportato alla giovane società statunitense, di cui il jazz è una delle espressioni culturali più alte: qui gioca un ruolo fondamentale la figura geniale di James Reese Europe, – un vero e proprio pioniere, che già nel 1910 aveva fondato a New York il Clef Club, un’organizzazione di musicisti di colore.

James Reese aveva costituito un’orchestra militare del 369° reggimento, che sollevò il morale di truppe e civili in Francia, dove approdarono per la prima volta a Brest. Questi musicisti lasciarono tracce molto profonde in ambito musicale europeo e americano, soprattutto grazie ai concerti con le loro interpretazioni sincopate di brani famosi.

Una curiosità: il 369° reggimento premiato con la Croix de Guerre – ha subito il maggior numero di perdite di tutte le unità americane con un totale di 1500 uomini – fu denominato Men of Bronze dai francesi e Hell-fighters dai tedeschi. Ritornati in patria, i soldati rimasero delusi nel constatare, che nonostante i loro sforzi dimostrati in guerra per la loro nazione, la condizione della popolazione di colore negli Stati Uniti non migliorò di molto. Infatti bisognerà attendere il 1964, prima che la segregazione venisse abolita ufficialmente.

Jason Moran – foto: Emilio Esbardo

Durante il Jazzfest, è stato mostrato anche il documentario The Great War of the Harlem Hellfighters, che racconta la storia del 369° reggimento.

James Reese Europe, denominato dal pianista Eubie Blake il Martin Luther King della musica, è nato il 1880 a Mobile (Alabama) e morto il 1919 a soli 39 anni a Boston. James Reese è stato il protagonista, la figura chiave della scena jazzistica della New York degli anni ’10 del novecento. Era una figura poliedrica: bandleader, arrangiatore e compositore.

Europe è stato un precursore, un visionario, perché ha rifiutato di adattarsi alle convenzioni musicali del periodo, creando un proprio stile che lo distinse dagli altri e che promuoveva la musica degli afroamericani. Alcune sue dichiarazioni celebri e più volte citate, sono:

Abbiamo sviluppato una specie di musica sinfonica che, a prescindere da ciò che se ne pensi, è diversa e distintiva e si adatta ai tratti peculiari della musica della nostra razza (…)

Noi persone di colore abbiamo la nostra propria musica, che è parte di noi. E’ il prodotto delle nostre anime; è il risultato delle sofferenze e delle miserie subite dalla nostra razza (…)

Sono ritornato dalla Francia convinto più che mai che le persone di colore debbano scrivere musica di persone di colore. Abbiamo un nostro personale sentimento razziale e se tentiamo di copiare i bianchi diventeremo solo una cattiva imitazione (…)

Abbiamo conquistato i cuori dei francesi suonando la nostra musica e non una pallida imitazione di altri, e se vogliamo svilupparci anche in America dobbiamo seguire le nostre linee (…)

James Reese prima di rientrare negli Stati Uniti è entrato in studio di registrazione in Francia per la Pathé Records. Il 9 maggio 1919, durante un concerto, ebbe un diverbio con il batterista Herbert Wright, il quale lo colpì al collo con un temperino, procurandogli un’emorragia, che gli provocò la morte. Tutto ciò che ho raccontato finora ha fatto parte del progetto audio-visivo The Harlem Hellfighters di Jason Moran al Jazzfest, a cui hanno partecipato i musicisti: John Akomfrah, Bradford Young, Ife Ogunjobi, Joe Bristow, Andy Grappy, Hanna Mubya, Mebrakh Johnson, Kaidi Akinnibi, Alam Nathan, Tarus Mateen, Nasheet Waits.

Jazzfest Berlin 2018 – foto: Emilio Esbardo

Sabato 3 novembre, immediatamente dopo le prove pre-concerto, Jason Moran mi ha concesso una bella ed interessante intervista. La sua esibizione e quella del suo gruppo non hanno disilluso le mie aspettative. Moran è, secondo il mio parere, uno dei migliori musicisti del jazz contemporaneo.

INTERVISTA

Come ti è venuta l’idea di trattare un argomento che ha come tema il jazz e la guerra?

A dir la verità, non è stata un’idea mia. Sono stato contattato da un’organizzazione inglese che si chiama 14-18 NOW, la quale promuove artisti a livello internazionale. Essi volevano che si realizzasse un’opera incentrata su James Reese Europe, perché avevano intuito la sua cruciale importanza per la diffusione del jazz a livello nazionale ed internazionale durante il periodo della prima guerra mondiale. James Reese Europe è stato un ottimo compositore, arrangiatore, bandleader ed attivista. È stato una personalità poliedrica. Purtroppo il suo fondamentale contributo alla musica jazz non è stato riconosciuto, nonostante sia stato lui a diffonderne il fascino in tutto il globo. Sotto alcuni punti di vista, è stato lui stesso ad avviare la moda del jazz. Ecco perché quando ho ricevuto la proposta di realizzare un pezzo a ricordo di questo grande artista, ho esclamato spontaneamente: “sarà una cosa divertente”. Per me è stato importante non solo scrivere la musica ma investigare e meditare su ciò che questo personaggio è stato e su cosa rappresenta oggi.

Più dettagliatamente di cosa tratta la tua composizione?

Il brano racconta anche di come James Reese Europe sia stato rimosso dalla storia: più che altro, dunque, si parla della sua assenza storica piuttosto che della sua presenza. Non è studiato nei conservatori come pilastro della comunità jazz. In alcuni casi, non si conosce neppure il suo nome: eppure ha dedicato la sua intera esistenza per la sua missione. Com’è possibile che sia accaduto tutto ciò? La mia opera ha come soggetto lui, la sua musica e una meditazione su di noi come band. È stato come ritornare indietro nel tempo, al 1918, per cercare di immaginarci che cosa significasse per gli afroamericani arruolarsi per la guerra, visto che allora non era ancora consentito combattere sul fronte insieme agli altri soldati. E poi c’è il problema della schiavitù. Abbiamo dovuto meditare a lungo per riuscire a comprendere lo stato d’animo di quelle persone che hanno deciso di mettere a rischio la loro vita per una nazione, che ha tenuto la gente di colore in cattività per secoli: gli afroamericani per generazioni e generazioni e generazioni sono stati schiavizzati… e per generazioni e generazioni e generazioni i bambini strappati via dalle loro famiglie per essere venduti… secoli e secoli e secoli di tutto ciò! Poi giunse l’abolizione della schiavitù e gli afroamericani, disabituati alla libertà, si sono sentiti abbandonati come ragazzini che si sarebbero dovuti sostenere da soli! Avrebbero dovuto apprendere a marciare con le proprie gambe. Una situazione davvero bizzarra. Ad un certo punto della storia sbuca un pensatore come James Reese Europe, che viaggia instancabilmente da sud a nord per promuovere la caratteristica musica della gente di colore. Per questo motivo io considero James Reese Europe meglio di un supereroe.

Jazz e guerra. Pensi realmente che i due temi abbiano qualcosa in comune?

No. Ma il jazz è stato utilizzato allora per far appassionare la gente alla guerra. Il gruppo di James Reese, inconsapevole di questo ruolo, si dirigeva nei quartieri neri degli Stati Uniti, per suonare all’aperto. Le persone si avvicinavano, esclamando: “Sai che amiamo questa canzone? Tu sei quello che dirigerà la band del reggimento? Allora vogliamo arruolarci anche noi”. La musica è stata utilizzata come un’arma a doppio taglio.

Mi è piaciuto tantissimo il tuo “Fats Waller Dance Party” all’edizione 2013 del Jazzfest. Dal tuo punto di vista, qual è il maggior contributo che Fats Waller ha apportato alla musica? Come ti è venuta questa idea?

È un progetto di molti anni fa. Debbo precisare che durante la mia carriera, all’inizio mi sono interessato a Thelonious Monk, poi a Fats Waller e invecchiando a James Reese. Europe ha avuto il merito di intuire il concetto di sincope aprendo una nuova tradizione: dopo di lui vi sono stati Eubie Blake e Noble Sissle. E successivamente Duke Ellington e James P. Johnson, il quale ha avuto come suo seguace Fats Waller. Vi è dunque un’invisibile linea unificatrice nel mio percorso professionale. Per quanto riguarda Fats Waller in particolare, posso dire che ha rallegrato la vita delle persone, ai suoi concerti si ballava. Al contempo però la sua musica rifletteva le sue difficoltà nella vita come ad esempio la sua lotta contro l’alcolismo. Queste sue intense emozioni si percepivano nelle sue composizioni. Waller possedeva una tecnica impeccabile al piano. Infine gli eccessi della sua vita privata lo condussero alla morte a soli 39 anni. Alla stessa età è deceduto anche James Reese Europe. Queste sono state persone che hanno avuto una vita breve, ma che hanno lasciato un’eredità fondamentale nel mondo della musica.

Jason Moran – foto: Emilio Esbardo

Ti ricordi quando e perché hai deciso di diventare un musicista?

Sì. All’età di sei anni ho iniziato a studiare piano Suzuki ma non mi piaceva per niente. Poi a tredici anni ho sentito per la prima volta la musica di Thelonious Monk, che proveniva dal giradischi nella camera da letto dei mei genitori. Il mio primo pensiero è stato: “chi è questo musicista? Voglio apprendere a suonare il piano come lui”. Da quel momento ho messo anima e corpo per raggiungere il mio obiettivo.

Alla fine del concerto, tu e i componenti del tuo gruppo vi radunate attorno al piano, vi prendete per mano respirando. Che significato ha?

Io e il mio gruppo volevamo trovare la maniera di “respirare” la nostra musica, facendola diventare parte di noi, del nostro corpo, come se l’avessimo divorata. Questo tipo di esercizio ci è stato insegnato da una grande donna di nome Pauline, deceduta un paio di anni fa. Esistono dei video che mostrano Pauline guidandoci nella meditazione come un gruppo in cerchio, i cui partecipanti comunicavano inviandosi impulsi tra di loro. Il nostro pezzo è una meditazione sonora su James Reese Europe.

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