di Michela Buono
Maestro Tarsi la sua è una formazione classica, cosa ha studiato al Conservatorio della Svizzera Italiana?
Quella al CSI di Lugano è stata senza alcun dubbio un’esperienza positiva, ma non amo parlare della mia formazione accademica. Ho archiviato tutti i diplomi, master e lauree lasciandomi alle spalle il mondo ovattato che contraddistingue il loro raggiungimento non appena ho capito che stavo sprecando il mio tempo.
Preferisco considerarmi un autodidatta, dato che tutto ciò che ho messo in pratica negli ultimi anni è frutto di esperienze autonome, di alcuni incontri decisivi, così come dello studio di numerose partiture che acquistavo investendo i primi soldi che guadagnavo cercando di leggere più libri che potevo e ascoltando naturalmente moltissima musica (mai abbastanza, in verità). Queste sono le esperienze che ritengo più importanti per la mia formazione che, naturalmente, ha anche moltissimi limiti. Ad ogni modo ho messo sempre in discussione la figura dell’insegnante, dubitando di chi mi parlava da una cattedra senza fare il musicista o senza sapere, in fondo, dove nel frattempo stava andando il mondo (prima di Lugano ho studiato a Pesaro, Verona e Parma). Detto ciò, sono convinto che la figura dell’insegnante sia preziosissima ed è assolutamente fondamentale per ogni musicista incontrare lungo il proprio cammino dei buoni maestri.
La sua attenzione è rivolta alla musica del secondo Novecento, com’è nato questo interesse?
Durante il percorso di studi ero annoiato dai corsi tradizionali dei conservatori e così ho trovato rifugio nei sentieri avventurosi del Novecento, un secolo che è rimasto sempre un po’ ai margini dei – datatissimi – programmi ministeriali ma che ha visto concentrarsi in vitro quelle che considero le più belle esperienze musicali di sempre. Non solo nella musica classica o per il rapido evolversi del jazz, ma anche per il susseguirsi delle sperimentazioni elettroniche e per l’avvento del rock (tra il 1966 e il 1969 sono accadute cose magiche). Senza contare che, per chi non amasse particolarmente queste esperienze, nel corso del Novecento c’è stato un grande fiorire e una riscoperta delle musiche delle epoche precedenti (incisioni discografiche comprese), una pratica che non è stata sempre presa in considerazione nei secoli passati. Per quanto mi riguarda, poi, ricordo bene il fascino che riversavano su di me alcune partiture di Debussy, Satie, Stravinskij, Ives, Copland, Gershwin, George Russell e Milton Babbitt, tra i tantissimi altri. Il mio amore per la musica colta del nostro tempo ha avuto la sua definitiva coronazione quando ho scoperto i capolavori di Tōru Takemitsu, fu una folgorazione. In seguito mi sono avvicinato al lavoro dei musicisti del minimalismo americano ed europeo, nonostante il mio insegnante di composizione di allora mi sconsigliasse di ascoltarli. Alla fine, però, l’interesse verso quel movimento artistico è stato irrefrenabile e così, invece di smettere di studiarlo, ho smesso di frequentare il corso di un maestro che stimavo ma che precludeva dai suoi orizzonti una parte così importante della musica contemporanea, preferendo evitare che condizionamenti e dettami di una scuola alla quale non sentivo di appartenere potessero mettere radici nella mia evoluzione creativa. Probabilmente non sarei mai arrivato a concepire questo disco se non avessi preso questa decisione. Una scelta che non ho mai rimpianto.
Parliamo del suo disco “Furniture music for new primitives” uscito per la collana POPtraits di Cramp Music e l’etichetta Rara Records nel 2015. Vari generi di musica si intersecano nell’album, numerose anche le collaborazioni con artisti importanti… Si è trattato anche di un omaggio allo scrittore beat William S. Burroughs?
Non parlerei di diversi generi musicali, si tratta piuttosto di un nucleo definito di idee esplorate da diverse angolazioni. Il risultato che ne deriva è di una musica da camera eseguita con strumenti amplificati (ma è presente anche un quartetto d’archi), con incursioni nei territori dell’ambient, dell’elettronica e del rock sperimentale. Ma alla base resta – almeno dovrebbe! – una forte coesione tra i vari momenti di questo lavoro, pensato come un mosaico in cui le cui singole componenti costituiscono la mia risposta a un horror pleni che personalmente sento essere fastidiosamente imperante nel mondo in cui oggi ci troviamo a vivere. Così, ai numerosi stimoli del mondo esterno, preferisco rispondere con poco, prestando però la massima cura a ogni minimo dettaglio e a ogni singolo particolare. L’omaggio a Burroughs è esplicitato alla fine del disco dalla voce di Paolo Tofani – il magico chitarrista degli Area International POPular Group – mentre declama la frase con cui inizia il romanzo Le città della notte rossa: “Niente è vero. Tutto è permesso”. Tra gli altri ospiti mi piace sottolineare la presenza di Roberto Paci Dalò, un artista che stimo profondamente in ogni sua declinazione, e dell’ex Afterhours Enrico Gabrielli autore con i suoi Calibro 35 di S.P.A.C.E. (Record Kicks), uno dei più bei dischi in circolazione in questo momento.
Per quanto riguarda la specializzazione con il premio Oscar Luis Bacalov relativamente alla composizione per il cinema, Le ha dato la possibilità di scrivere musiche da film?
Nel 2013 è stato presentato alla filmArche di Berlino un corto del regista tedesco Thomas Schlossherr – dal titolo “Das 7. Leben” – per cui avevo scritto le musiche, mentre ora ho appena finito di lavorare a un documentario dedicato alla figura dell’artista Loreno Sguanci, per la regia di Valerio Vergari (Zeeva srl), in cui sono presenti due brani tratti da “Furniture Music for New Primitives”, di cui uno in una nuova versione. Ho sempre apprezzato il lavoro di Bacalov in relazione a specifiche colonne sonore e ancor più per le sue collaborazioni nel campo del progressive rock. Ad ogni modo da tempo c’è la convinzione in me che nell’accostarsi alle immagini i compositori debbano farlo mantenendo ben riconoscibile la loro firma e intatta la propria cifra stilistica, senza doversi adattare di volta in volta a comporre musica d’uso. Personalmente quest’ultimo aspetto non mi interessa. È per questo che ho grande considerazione per il lavoro di David Lang, Philip Glass, Michael Nyman: le loro composizioni hanno pari dignità sia al cinema che nelle sale da concerto. Ammiro a maggior ragione figure come Ligeti o i Pink Floyd che hanno lasciato un’impronta indelebile nei lavori di Stanley Kubrick e Michelangelo Antonioni con musiche non pensate direttamente per il Grande Schermo. E lo stesso si potrebbe dire per Arvo Pärt.
Lei è anche musicologo e dal 2010 fa parte del collettivo Argo che, se non sbaglio, non si occupa solo di musica…
Argo è un collettivo che ruota principalmente attorno al mondo della poesia e della narrativa che nel tempo ha collaborato con personalità di rilievo del panorama culturale come Edoardo Sanguineti, Marina Abramović, i Wu Ming, Michela Murgia, Erri De Luca, Aldo Nove, Paolo Nori, Ugo Mattei, Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Dal 2010 pubblica una serie di romanzi collettivi (i miei contributi erano sempre rivolti nel trovare un punto di incontro con l’arte dei suoni), mentre è da poco uscito per Gwynplaine “L’Annuario di poesia 2015”, di cui ne raccomando la lettura (mi permetto di farlo dato che non è un progetto a cui ho preso parte).
Si è occupato dei rapporti tra musiche ed altre forme d’arte, suoi studi sono stati pubblicati su riviste importanti, quanto la musica del Novecento è stata influenzata dalle altre arti?
Moltissimo, direi. Basti pensare alle affinità che legavano Schönberg e Kandinsky, John Cage e Robert Rauschenberg, Morton Feldman e gli Irascibili, per non parlare di figure come Sylvano Bussotti o Giuseppe Chiari. Senza contare, poi, che alcuni dei più autorevoli compositori e performer inglesi e americani – Cardew, Bryars, Wolff, fino a protagonisti dell’art rock come i Talking Heads – ruotavano soprattutto attorno al mondo delle accademie d’arte, muovendosi fuori da quelle musicali. Ma dopo tutto anche l’architetto Tadao Ando non è stato forse un pugile prima di dedicarsi così meravigliosamente alla sua professione?
Lei ha scritto musiche per mostre di P. Cotani, M. Giacomelli, A. Warhol, sono stati brani scritti su commissione? Ha altri progetti del genere?
Si tratta di progetti nati, nella maggior parte dei casi, in sintonia con l’assessorato alla cultura di Senigallia tra il 2011 e l’inizio del 2015. In quel periodo Senigallia vantava un ottimo Assessore, sia per la profonda serietà e competenza che lo hanno contraddistinto, sia per una visione in grado di dare luce a questa piccolissima città sul piano nazionale con proposte di grande qualità, legate soprattutto alla musica e all’arte contemporanea. Alcune delle musiche che avevo composto per la retrospettiva dedicata all’artista analitico Paolo Cotani – un lavoro, ci tengo a specificarlo, che offrivo gratuitamente alla mia città – sono state presentate in seguito a Parigi e nel dicembre 2015 allo Spectrum di New York, in quella che è considerata una delle più importanti venue per la musica d’avanguardia della Grande Mela. Spero che la nuova amministrazione sappia far tesoro di queste esperienze, rinnovando quello spirito di interesse e curiosità verso il contemporaneo che alla prova dei fatti si è dimostrato molto prezioso per la città e chi la vive, così come in previsione di un incremento del turismo culturale (in questo momento un po’ carente, a dire la verità). Oltre alle mostre che ha citato, ci sono stati dei momenti di congiunzione con l’arte contemporanea per me altrettanto significativi presso il MAXXI di Roma, il MUSMA di Matera e il Centro Arti Visive ‘Pescheria’ di Pesaro dove ho avuto il grande piacere di scrivere musiche per due mostre bellissime, a cura di Ludovico Pratesi, dedicate al lavoro dell’artista Marco Tirelli e del grafico Massimo Dolcini. Ogni futura avventura in tal senso è per me la benvenuta.
Prossimo disco in uscita per il 2016? Concerti?
È ancora troppo presto per parlare di un nuovo lavoro discografico a mio nome (nel 2015 ne sono usciti due!). Non sono escluse però mie partecipazioni a progetti di altri artisti, sui quali sto già lavorando, ma su cui è prematuro sciogliere il riserbo. Sto inoltre pensando di pubblicare un EP con le outtakes di “Furniture Music for New Primitives”, vedremo. Per quanto riguarda i live tra febbraio e marzo sarò al Mat di Viterbo con il progetto elettronico audio/video “Dream in a landscape” (5 febbraio), al Circolo Hemingway di Latina (20 marzo) e al Teatroinscatola di Roma (21 marzo) per la chiusura del festival TODAYs MUSIC, queste ultime due date con il live di “Furniture Music for New Primitives”.
Prossime collaborazioni e pubblicazioni?
Sto ricevendo numerosi attestati di stima da parte della critica nazionale, così come da alcuni colleghi, compresi nomi illustri, sia in forma privata che pubblica. Qualcosa si muove e nuove prospettive decisamente avvincenti lentamente stanno prendendo forma, sulle quali però – ancora una volta – è prematuro soffermarsi anche perché l’album è in piena promozione. Tutto ciò che posso dire è che nel mio prossimo futuro penso di dare maggiore importanza alla vocalità, magari avvicinandomi, dal mio punto di vista, anche alla forma canzone. Per ora però sono concentrato sulla stesura del mio primo libro, una raccolta di scritti che vorrei vedere pubblicati a breve e per il quale c’è già l’interesse da parte di un editore.
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