di Alberto Figliolia
Stipati nella stiva,
segregati nel silenzio,
consegnati ai liquidi abissi,
in sorte a voi nemmeno è toccato
d’esser corpi galleggianti,
pur enfi d’acqua;
a voi, bambini, donne e giovani
senza nome, a voi il cielo
s’è rovesciato d’improvviso addosso,
fra pareti di ferro corroso,
e quell’invisibile cielo al contrario
ha aperto le spaventose cateratte,
come a un battito d’ali d’angelo caduto,
e i polmoni annaspavano
e gli occhi si colmavano di lacrime
e le lacrime si confondevano
con l’arsura dei deserti traversati
e la memoria delle oasi,
dei dolci consolatori datteri,
dei villaggi abbandonati,
dei soli sfolgoranti,
dei sogni annidati
nelle mutevoli e rare nubi
verso altri orizzonti.
Oh quale gehenna di grida
nei lenti gorghi del precipizio,
e seni materni allacciati
al dolore e mani brancolanti
nell’idea, già, del buio eterno!
Stipati nella stiva,
segregati nel silenzio,
consegnati ai liquidi abissi,
(incalcolabile cifra di vergogna
la nave a perdersi nelle spirali
della fusa oscurità,
placenta senza tempo,
ricordi tumefatti),
né baci né preghiere
nell’ultimo addio, soltanto il panico
cieco dell’asfissia…
In sorte a voi nemmeno è toccato
d’esser corpi galleggianti,
pur enfi d’acqua;
a voi, bambini, donne e giovani
senza nome, a voi rimane
l’ancestrale preghiera
di una tomba di ferro salato.
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