Levarsi la cispa dagli occhi - Intervista a Silvana Ceruti e Margherita Lazzati

di Silvio Mengotto 

«Cosa fai Silvana, non vieni più a trovarci?»

L’esperienza di Silvana Ceruti animatrice del Laboratorio di lettura e scrittura creativa nella Casa di reclusione di Milano-Opera dove delle persone detenute hanno scritto libri di poesia e all’interno di un progetto più ampio, sono state protagoniste di un documentario girato all’interno del carcere: “Levarsi la cispa dagli occhi”.

Da vent’anni Silvana Ceruti è l’animatrice del Laboratorio di lettura e scrittura creativa nel carcere di Opera. «In questa realtà – dice Silvana – sono “inciampata” quasi per caso nel corso della mia attività di italianista, non l’ho scelta». L’Ente di aggiornamento con il quale collaborava gli chiese di tenere un corso sulla lettura a “persone in difficoltà”, cioè all’interno di un carcere. «L’idea di un’esperienza così nuova, a livello umano, cioè un incontro con persone lontane dalla mia esperienza con insegnanti mi sollecitò e accettai l’incarico» continua Silvana – che venne così incaricata di programmare cinque incontri di animazione della lettura nel carcere di Opera. «Già dal primo incontro la lettura divenne anche scrittura – dice Silvana – queste due abilità sono i due versanti della comunicazione, paragonabili all’ascolto e al parlato, due aspetti intrinsicamente connessi, entrambi indispensabili per una completa alfabetizzazione. Si leggevano titoli di romanzi e si inventavano titoli possibili – esemplifica Silvana – ,  si leggeva una frase, l’incipit di un romanzo, poi i partecipanti scrivevano un seguito, anche di una sola frase, ma bella era la scoperta delle diverse possibili risposte a uno stesso stimolo!».


Quell’esperienza di relazione si è consolidata nel tempo. Finito l’incarico che le era stato affidato, Silvana ha proseguito per una quindicina di anni come volontaria. Negli ultimi sei anni a lei si è affiancato nella conduzione del Laboratorio Alberto Figliolia, poeta e scrittore. Molti partecipanti hanno trovato nella scrittura, soprattutto nella poesia, un mezzo per scoprire la propria interiorità e un linguaggio per comunicare con gli altri. Silvana e il suo Laboratorio hanno poi incontrato, circa cinque anni fa, il progetto “Leggere libera-mente” di Barbara Rossi. fondato sull’idea di “biblioterapia”. E’ iniziata così una proficua collaborazione tra i due progetti che ha visto diventare sei i Laboratori presenti a Opera, ciascuno con una propria specificità. Oggi sono più di sessanta i partecipanti a questi Laboratori e l’anno scorso è nata l’idea di documentare questo grande progetto con un film documentario: “Levarsi la cispa dagli occhi”.

Da oltre un anno al Laboratorio di scrittura creativa si è affiancata anche Margherita Lazzati con il suo linguaggio fotografico, pieno di poesia dello sguardo, e con le sue fotografie,  raccolte nel volume “Cacciatrice di miraggi”.

 Abbiamo intervistato Silvana Ceruti e Margherita Lazzati.

 

D. Cosa ricorda dei primi incontri nel carcere di Opera?  «Ho subito segnalato che cinque incontri erano pochissimi per motivare delle persone a leggere, così il corso si è protratto consecutivamente per due anni. A conclusione del progetto il  Laboratorio era diventato una piccola comunità, si era creato infatti un clima di fiducia e di apprezzamento reciproco tra la decina di corsisti, un generoso esporre i propri sentimenti e pensieri, senza temere giudizio, quasi una piccola famiglia. Ricordo che mi dissero «Ora che non ti pagano più, cosa fai Silvana? Non vieni più da noi?». Risposi che avrei continuato ad andare perchè amo la relazione e quella che si era stabilita in Laboratorio era positiva, faceva star bene tutti i membri del gruppo, me compresa.  Devo dire poi che ho un retroterra scout, dove è fondamentale l’idea di servizio, inteso come offrire gratuitamente agli altri qualcosa delle proprie competenze. Penso che sarebbe bello se qualunque professionista esercitasse la propria professione per sé, per il proprio mantenimento, ma una parte la donasse a chi non vi potrebbe altrimenti accedere. Ho così continuato l’esperienza in carcere per questi due motivi. In verità non pensavo di rimanere così a lungo in questa realtà, tutti mi avevano detto –  ed è vero – che le persone in carcere soffrono di depressione e per questo di labilità nell’impegno, quindi la mia presenza sarebbe durata poco. Sono invece 20 anni che questa esperienza continua!»

 


D. Se l’aspettava che delle persone scoprissero da adulte la poesia e utilizzassero questo tipo di testo nella propria esistenza?  «Sì. Ho sempre creduto che anche il linguaggio poetico si può insegnare, la poesia è un tipo di testo, come quello narrativo o quello  descrittivo, e necessita di competenze formali come necessitano per scrivere una lettera. Non è difficile acquisire gli strumenti per comporre un testo che si chiama poesia, basta conoscerne un po’ il linguaggio.

La vera sfida invece è quella di rinnovare il proprio sguardo, di guardare la realtà che ci circonda come fa il poeta vero.»

 

D. Che significa di preciso?  «Significa imparare a guardare la realtà in un modo nuovo: con nuova curiosità, non dando nulla per scontato, stupendosi, osservandola, amandola. Questo è un atteggiamento fondamentale! La poesia è come  un’immersione dentro di sé, ha il potere di far scoprire delle parti di sé non prese in considerazione, è un abbandonarsi, un dar fiducia, al proprio sentire. Permette così  di mettere in profonda relazione le persone. Un sentimento una persona non può negarlo o discuterlo, un’idea sì! Se io manifesto tristezza o gioia, tu non puoi contestarmele»

 

D. Allora la poesia ha proprietà pedagogiche ?  «La poesia unisce molto. All’idea di stare bene insieme, alla necessità dell’armonia tra persone ho sempre dedicato molta attenzione. E la poesia fa conoscere l’altro nella sua parte più disarmata, svelando sentimenti ed emozioni ed offrendoli in dono all’altro. Naturalmente tutti i tipi di testo sono proposti in Laboratorio, la lettera, i racconti, le novelle…  ma la poesia è un tipo di testo che permette a tutti di esprimersi in modo originale: tutti riescono a trovare un’immagine forte, un lampo espressivo di un sentimento, basta riconoscere il proprio sentire e tirarlo fuori. Le persone che hanno un livello culturale basso – causa una scarsa scolarizzazione- fanno fatica a reggere un racconto intero, che ha una sua struttura più rigida, con un inizio e una fine, con degli avvenimenti centrali, mentre per la poesia può bastare un flesc, anche una sola immagine che rivesta un sentimento forte»

 

D. A suo modo la poesia ha stimolato l’alfabetizzazione ?  «Alcune persone che sono venute nel laboratorio non scrivevano più da anni e mai si erano cimentate in una scrittura espressiva. Hanno scoperto però la possibilità di rivestire di parole il proprio sentire e, con il passare degli anni hanno acquisito un vero linguaggio poetico. Sì, direi che la poesia ha stimolato l’amore per le parole e la ricerca dei loro significati. Per i primi sei anni di Laboratorio, non ho mai pensato alla pubblicazione di antologie con le poesie dei partecipanti, però a un certo punto avevamo tanto “materiale” che abbiamo pubblicato un primo libro antologico. Dai libri di poesie siamo passati ai calendari poetici alternando una bella poesia con una bella immagine.  Attraverso l’aiuto di Gerardo Mastrullo, –  straordinaria persona e raffinato editore che ha sempre anticipato la produzione al pagamento delle spese di stampa – siamo arrivati a realizzare quattro antologie con poesie, racconti, lettere e riflessioni e, cosa veramente importante per gli autori, tre singoli libri di poesie per tre persone detenute che avevano maturato un linguaggio poetico personale»

 

D. Come sono gli incontri in laboratorio?  «Non si svolgono tipo lezione scolastica. Ci si riunisce attorno ad un tavolo, si leggono e si commentano i testi scritti liberamente durante la settimana. Ciascuno dà il suo apporto e commenta i testi degli altri. Poi solitamente c’è una proposta di scrittura da vivere insieme in Laboratorio, proposta che porto io o l’ospite di turno e i primi a cimentarci con la scrittura siamo noi: Alberto, io, l’ospite… Questo perchè nessuno di noi è lì in veste di “insegnante” e nessuno deve osservare mentre gli altri scrivono. Poi leggiamo i testi prodotti e li commentiamo: è sempre bello vedere le diversità di ispirazione seguite a un medesimo stimolo. Spesso i miei scritti sono meno belli dei corsisti! Li leggo e li offro… per togliere la paura del giudizio!»

 

D. In che senso?  «Sono già persone giudicate. Nel laboratorio non c’è giudizio, non è la scuola e non c’è votazione. Ti piace venire? Allora vieni, anche se non sei interessato a scrivere. Quello che scrivi è sempre un dono offerto. Se trovata adeguata, viene accolta la correzione mia o di un compagno, cosa che a scuola solitamente non avviene»

 

D. Nel film le persone commentano le cartoline fotografiche di “Cacciatrice di miraggi” di Margherita Lazzati. Che sensazione ha provato durante l’incontro con i poeti? «E’ stato un grande onore e una sorpresa immensa essere stata invitata come ospite del laboratorio. Durante la mia ultima mostra “Cacciatrice di miraggi”, che aveva come catalogo una selezione di cartoline di miei “miraggi” catturati intorno al mondo. E’ stata una sorpresa ricevere le cartoline del catalogo “cacciatrice di miraggi” dai “ragazzi” che frequentano il Laboratorio di Lettura e scrittura creativa della casa di Reclusione di Milano-Opera, ai quali sono state distribuite da un amico Avvocato che da anni è uno degli animatori degli incontri. Mi sono stati recapitati pensieri intensi e struggenti da persone detenute che frequentano il Laboratorio. I messaggi che venivano da Opera davano voce ai miei miraggi con parole folgoranti.. A quel punto ho chiesto di conoscere gli autori dei testi. Con grande emozione sono stata accolta durante un incontro dove i poeti detenuti mi leggevano i loro testi. Erano talmente intensi e sprigionavano una umanità sconosciuta. Tutte le altre persone che avevano commentato le fotografie in fondo avevano aderito quasi a un gioco di corrispondenza, mentre in laboratorio c’è stata una empatia che continua ogni volta che ci ritroviamo a lavorare insieme: una corrispondenza tra poesie e fotografie»

 

D. Signora Silvana Ceruti come è nata l’idea del documentario girato interamente nel carcere di Opera?  «Una premessa doverosa e propedeutica alla risposta. Come ho già detto all’inizio, il documentario è legato ad un progetto che si chiama “Leggere libera-mente”, da non confondere con quello del Laboratorio di lettura e scrittura creativa. I due progetti non nascono insieme. Per 15 anni ho gestito il Laboratorio di lettura e scrittura. Cinque anni fa è nato il progetto “Leggere libera-mente” fondato soprattutto sulla lettura come biblio terapia. Un’idea sostenuta da Barbara Rossi e da una piccola equipe che si era formata per animare questo progetto portando i libri sul palcoscenico del teatro di Opera, invitando artisti, scrittori e sportivi. Sono stata catturata da questa piccola equipe con l’accostamento di qualche intervento e collaborazione. Oggi collaboro strettamente con il gruppo facendone parte e portando avanti questo progetto. Il Laboratorio di lettura e scrittura ha una sua strada ma collabora con i Laboratori nati in questi ultimi anni. L’equipe ha ritenuto interessante documentare con un audiovisivo questo articolato progetto. »

 

D. Con quali motivazioni?  «La prima è stata quella di documentare il lavoro, la seconda – di cui abbiamo preso piena coscienza a film terminato – potrebbe essere quella di proporre un modello di intervento culturale che ha trovato consenso nelle persone detenute. Un terzo e fondamentale motivo è quello di mostrare a tutti le grandissime risorse umane che ci sono anche dietro le mura di un carcere. Quindi come l’attuale separazione tra chi sta dentro e fuori dal carcere sia un vero spreco di risorse, sia per le persone detenute che non arrivano se non attraverso un percorso di incontro con gli altri a riconciliarsi con la società, sia per la società stessa che ha già patito un danno da parte loro ma non riceve riparazione dalla sola detenzione.

Nei nostri Laboratori  abbiamo scoperto la bellezza, la potenza che c’è nella persona umana in generale. Ci sono azioni riprovevoli, di rottura, ma ci sono anche possibilità di bene e di bellezza in tutti»

 

D. E’ vero che il documentario è realizzato senza canovaccio riprendendo la realtà carceraria spesso sconosciuta?   «Sì, non c’era niente di pre-ordinato. Il compito dei registi era quello di documentare la realtà, la parte  più gravosa penso sia stata quella di tagliare sequenze per dare un ritmo al film! I registi sono venuti nei laboratori per decine di ore riprendendo quello che succedeva. E credo che il film ben mostri anche divergenze di opinione tra i corsisti. Le eccezionali riprese nelle celle, nelle aree di passeggio, nei corridoi sono state possibili per la stima che il Direttore del carcere, Dottor Giacinto Siciliano, ha per questo progetto e per la collaborazione degli agenti di polizia penitenziaria.» 

 

D. Gli incontri nel laboratorio avevano una loro specificità? (Margherita Lazzati) «Quello che caratterizza ogni incontro è la scoperta dell’autenticità, proprio ciò che fuori dal carcere non accade così facilmente. In laboratorio non c’è bisogno di maschere è un incontro alla pari. Non si parla del perché si è lì in quel momento dove ognuno vive con il suo apporto di umanità come il film documenta. Ciò che è magnifico è il senso di essere attesi. L’arrivo in laboratorio è accolto da un’attesa sincera, un ritrovarsi per riprendere un dialogo, un lavorare insieme. E’ stato bellissimo anche quando Silvana ha fatto scrivere anche noi ospiti»

 

D. Lo scopo del documentario è quello di costruire un ponte di riconciliazione tra chi è all’interno del carcere e chi ne è fuori?  «Una volta che abbiamo realizzato questo film con lo scopo di documentare ciò che si faceva ci siamo accorti che era un ottimo messaggio, un ottimo ponte a livello comunicativo con le persone fuori dal carcere, perchè vedessero le persone dentro al carcere e le riconoscessero persone nei pensieri così simili ai loro.  A loro volta le persone in carcere avessero la possibilità di parlare alle persone fuori dal carcere. Questo il motivo per cui adesso abbiamo progettato un tour, il CISPATOUR,  che attraverso la proiezione del documentario nelle principali città d’Italia e nelle relative carceri, faccia riflettere.

Quando si parla di certezza della pena, si dovrebbe anche parlare di una certezza di restituzione e la certezza di re-immettere nella società una persona ricostruita, non come viene detto molte volte nel documentario peggiorata. Se una persona rimane in carcere 20 anni, sia per i lunghi anni di inerzia, sia per il degrado nel quale è vissuta, non si può certo sperare che sia diventata migliore! Una ragione in più per proporre la visione del film alla società»

 

D. In particolare ai giovani?   «I giovani sono molto sensibili. C’è stata una proiezione dieci giorni fa a delle classi con un’emozione grandissima. Tutte queste persone detenute si sono poste come papà o come fratelli maggiori dicendo cose come le avrebbe dette un genitore, tipo «alla vostra età ero come voi…, desideravo alcune cose…, state attenti a questo o quello». Si erano immedesimati in questo messaggio positivo da trasmettere e contemporaneamente erano commossi dalla attenzione che questi ragazzi avevano verso di loro.

Il discorso poi di “togliere la cispa dagli occhi”, cioè il messaggio di guardare bene le persone, di guardarle senza pregiudizi, non con gli occhi offuscati, è fondamentale sia fatto il prima possibile, prima che la cispa sia troppo indurita negli occhi, quindi massimamente ai giovani.

Le persone detenute sono persone che spesso soffrono nell’essere etichettate come “cattive”. Sentirsi autori di una cosa positiva, come, ad esempio, un libro di poesie, per loro è importante. Hanno prodotto una cosa bella. Credo che questo sia lo stimolo migliore, per loro, come per tutti, per tutti, ad andare avanti e migliorarsi».

 

D. Non crede che dall’esperienza di Opera giunga l’invito ad allargare l’orizzonte al mondo carcerario femminile?  «Certamente, anche se bisogna dire che a Opera non è possibile perchè è un carcere solo maschile. Dirò una cosa che può sembrare molto strana. Se il carcere fa male agli uomini credo che faccia ancora peggio alle donne. Le donne non sono fatte per il carcere. Ne ho avuto una dimostrazione quando siamo andati a proiettare il film nel carcere di Chieti, con 150 persone detenute di cui una ventina donne. L’effetto che mi hanno fatto queste donne è stato pesantissimo, erano state devastate da questa esperienza carceraria: hanno figli, bisogno di dare e ricevere affetto, hanno bisogno di bellezza più dell’uomo. Il carcere non è bello proprio come struttura: cemento,sbarre, pavimenti di linoleum scrostati, bagni e pareti fatiscenti. Qualcuno dice che Opera è un carcere di lusso rispetto ad altri. Sono solo in due in celle progettate per uno!»

24 maggio ’13 

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