Arte all’ombra del Muro - Intervista a Fulvio Pinna

Fulvio Pinna è un pittore ed uno scultore sardo nato nel 1948 a Furtei. Dopo aver studiato filosofia, storia e pedagogia ed essersi affermato come artista a Roma, decide di trasferirsi a Berlino nel 1987. Nel 1989, dopo l’apertura delle frontiere, realizza, su un tratto del Muro, un affresco di 52 metri quadrati intitolato “Inno alla gioia”, tutt’oggi visibile presso l’ “East-Side-Gallery” (1,3 km del Muro di Berlino rimasto preservato e ricoperto con dipinti di diversi artisti). È sua la realizzazione della scultura SOFIA, concepita per il Premio Bacco della serata di gala italiana “Notte delle Stelle”, che si tiene durante il festival internazionale del cinema a Berlino. Fulvio Pinna mi ha gentilmente concesso un’intervista al termine dell’ultimo vernissage nella sua galleria.


Fulvio, che tipo d’infanzia hai avuto?


La mia infanzia è stata bella. Anche se mia madre afferma il contrario, perché ero malaticcio. Poi lei ha un brutto ricordo, quando sono caduto nel vuoto mentre giocavo con un mio amichetto, che oggi lavora come missionario in Egitto. Mi sollevarono da terra esclamando: “è morto”.

Fulvio Pinna nell’ultima edizione di “Notte delle Stelle” accanto all’attrice Stephanie Stumph con la statuetta SOFIA - Foto: Emilio Esbardo

Ti è mai capitato di sentirti più sardo a Berlino che in Sardegna?

Sì, effettivamente mi sono scoperto più sardo a Berlino che nella mia terra d’origine. Della Sardegna ciò che mi manca di più è la luce. Ma anche la cordialità della gente, il paesaggio, il mare, i familiari. Quando mi sono trasferito a Roma, dove avevo comprato casa, pensavo di aver messo radici lì ma non era vero. In seguito credevo invece di averle messe a Berlino. Ma mi basta sentir parlare il mio dialetto, che in realtà è una lingua vera e propria, per capire dove effettivamente stanno le mie radici. Spesso accade che molte cose della mia terra tornino talmente prepotentemente in me e che inizio a sentirmi talmente male da prendere immediatamente l’aereo per la Sardegna.

Se non sbaglio, quando ti sei trasferito a Roma, c’erano molti salotti letterari.


Già a Cagliari, nei primi anni ’70, in via Piccioni, nel centro storico, avevamo fondato un circolo, dove organizzavamo concerti, mostre, etc. Poi nel ’74 mi sono trasferito a Roma, dove ho trovato tutto questo ingigantito. C’erano numerosi circoli letterari: le serate trascorrevano in lunghe e interessanti discussioni.

Quali dei premi, che tu hai ricevuto ti è rimasto più a cuore?

Il Perseo a Firenze, il premio Sironi a Milano, città che mi ha dato tanto e a cui ho dato tanto. Ogni premio, c’è da dire, è legato ad una storia particolare che porterò sempre tra i miei ricordi.

L’arte può avere una funzione pubblica/politica?


Assolutamente sì. Nel mio caso al 100%. Nel 1956, a soli otto anni, successe qualcosa che mi è rimasto impresso per tutta la vita. Mentre aiutavo mio padre, calzolaio, nel suo lavoro, notai come lui, impietrito da una notizia che fu annunciata alla radio, esclamò: “mamma mia, che cosa terribile!”. Nel chiedergli spiegazioni, mi disse: “I carri armati russi sono entrati in Ungheria”. Non riuscendo a capire cosa significasse, mio padre aggiunse: “È come se qualcuno venisse a casa nostra adesso e ci dicesse ora qui comando lui”. Capii che era una cosa assurda. E così sin da bambino ho iniziato a riflettere sul significato e sul valore della libertà, per la quale giurai di combattere per tutta la vita. Ho iniziato ad esprimere le mie convinzioni politiche nell’arte, quando ancora abitavo in Sardegna, il giorno in cui in Unione Sovietica hanno scarcerato Solženicyn, il famoso scrittore che ha scritto sulle sue esperienze nei Gulag. Nel 1973 realizzai un quadro che raffigurava la dittatura: un uomo nudo che si teneva ad una specie di corda che cadeva giù dal cielo. Sopra il cielo c’era l’occhio di Dio che simboleggiava la speranza. La dittatura è rappresentata da quest’uomo tondo, rozzo con un coltello e la frusta. All’interno del dipinto c’era il mio primo disegno del Muro di Berlino: questa città faceva già allora parte del mio destino.


Fulvio Pinna con l’attore Hans-Werner Meyer - Foto: Emilio Esbardo

Hai iniziato presto a disegnare e a guadagnare con i tuoi disegni, con i tuoi quadri?

Già alle elementari i miei disegni piacevano a tutti i miei compagni di classe. Mi ricordo che li mettevo sul letto e li ammiravo. Alle medie ero uno dei più bravi. Durante l’adolescenza, invece, mi sono lasciato distrarre dalle ragazze, dalle moto, dalle discoteche, trascurando la mia passione. Mi dedicavo, comunque, a decorare le biciclette dei miei amici, ai quali scherzando dicevo: mi paghi? Loro però mi pagavano sul serio perché erano più che soddisfatti del risultato dell’opera. Ero anche molto bravo nel lavoro manuale. Costruivo fionde e pugnali, che allora andavano di moda e li vendevo ai miei amici. Non li pensavo come arte, cosa che invece era. L’arte è anche manualità, abilità che avevo acquisito da mio nonno che era falegname.

Era difficile allora recarsi a Berlino dall’Italia, portando con sé i propri quadri?

Sì, era veramente come fare un viaggio sulla luna con tutti quei controlli che c’erano. Già a Roma dovevo portare i quadri al Ministero delle Belle Arti per farli visionare e piombare e dove ricevevo una ricevuta di pagamento effettuato. Da Roma si doveva andare con i quadri piombati a Vipiteno, dove si effettuavano altri controlli, si mettevano altri piombi, c’erano altri soldi da sborsare e altro tempo da perdere. Da lì poi si affrontava la prima vera frontiera. Più brutta di quella della DDR era quella austriaca. Erano così pignoli che una volta mi mandarono indietro perché c’era un punto invece di una virgola in un passo della lettera del direttore di un Museo di Vienna dove avrei dovuto esporre.

Perché hai deciso di venire proprio a Berlino?

Volevo tentare di comprendere com’era possibile che famiglie intere vivessero divise da un Muro. Per me era irrazionale, senza senso. Era l’ottobre del 1987 ed io abitavo a Roma ed ero il classico artista affermato. Avevo comprato casa in campagna. Trascorrevo molto tempo leggendo notizie su Berlino, che veniva descritta come un centro culturale, una città piena di giovani e molto economica. Percepivo che era differente dalle altre città europee. In Italia novità artistiche non ce n’erano. Un giorno ricevetti la telefonata di mio padre che mi disse che a Roma c’era un mio amico che mi voleva venire a trovare. Quando ci incontrammo gli dissi: “so che vivi a Berlino. Ci fa freddo?”. Nella durata di un pranzo decisi di andare lì. Solo così per visitare la città. Ma poi arrivò la proposta della Nixdorf per fare una mostra nel suo atrio e diversi giornali berlinesi scrissero su di me. Il quotidiano Morgenpost rivelò come io fossi stato il primo artista ad avere realizzato un’opera che trattava l’apertura del Muro. Così decisi di trasferirmi definitivamente. Ero stato anche coinvolto dall’entusiasmo che si respirava in città, non c’era burocrazia. Berlino era ricca perché era sovvenzionata da tutte le parti. Era tutto in mano ai giovani. Entravi in ufficio e c’erano giovani. E il giovane è diretto. Ti dice sì o no. A me, per fortuna, dissero tutti di sì.

Sai com’era la vita per un artista a Berlino est?

Non potendo viaggiare nei Paesi occidentali, i berlinesi dell’est avevano sviluppato un senso profondo per l’arte e la cultura, che se rientravano nei parametri ideologici del regime, venivano sovvenzionati dallo Stato. Gli sportivi e gli artisti erano un’elite. Io sono riuscito a mettermi in contatto con loro e sono stato il primo italiano in assoluto a poter esporre nella zona est della città. Ci fu una marea di giornalisti e visitatori. Ero sorpreso come la gente era felice, si divertiva, andava all’opera. Al termine della quale, mi ricordo, il viale Unter den Linden scompariva travolto da una grande nuvola di fumo provocate dalle Trabant, le macchine della DDR. Era un mondo surreale, un mondo incredibile. A loro modo avevano un senso di appagamento, un senso di felicità che noi non conoscevamo. Non voglio dire che era meglio o peggio. Sapevano vivere bene anche loro. Se poi qualcuno si muoveva contro i canoni della dittatura, passava guai seri. Io volevo capire perché non ci si poteva esprimere liberamente, a proprio gusto. Questa è una domanda che porterò con me per tutta la vita.

Del Premio Bacco cosa puoi raccontarmi?

È stata un’altra pagina bellissima della mia vita. È un’idea nata da un cenacolo, dove ad un certo punto mi è stato chiesto: “Allora Fulvio cosa facciamo, con cosa premiamo gli attori”. Ed io ho forgiato la statuetta, chiamata “Sofia”, quando a ritirare il premio è stata Sophia Loren, che l’ha apprezzata moltissimo e che mi disse che l’avrebbe posizionata tra i suoi due Oscar. E questo fu il battesimo ufficiale della statuetta.

Cosa ti ha spinto a dipingere un tratto del Muro di East-Side-Gallery?

Per dare un tono di colore a quel grigiore vi ho aggiunto una scritta che riassume per me il valore della libertà: “Ho dipinto il Muro della Vergogna, affinché la libertà non sia più vergogna. Questo popolo ha scelto la luce dopo anni d’inferno dantesco. Chi è di Berlino ha i miei colori e la fede di uomo libero”.

di Emilio Esbardo

 

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