Da operaio specializzato a pittore professionista nella Berlino divisa dal Muro - Intervista a Adelchi Mantovani

Adelchi Mantovani nel suo appartamento a Berlino

di Emilio Esbardo

Adelchi Riccardo Mantovani è nato il 1942 a Ro Ferrarese e la sua vita è dettata, sin dalla tenera età, dalle rigide regole religiose delle suore dell’orfanotrofio di Ferrara, alle quali era stato affidato dopo la morte di suo padre. 

Nel 1964 prende la decisione di emigrare in Germania, dapprima in una cittadina nei pressi di Colonia e, in seguito, nel 1966, permanentemente a Berlino. Nella città divisa dal Muro, inizia lentamente a dipingere e a sviluppare la propria tecnica, divenendo con il tempo un pittore professionista. 


La sua formazione cattolica continua in un collegio, dove apprende la professione di tornitore. Sono anni, durante i quali, il giovane Mantovani cresce in un ambiente non consono alle sue propensioni artistiche e senza sbocchi culturali. “In collegio, non vi era spazio per l’educazione artistica”, ha scritto nella sua autobiografia, “l’essenziale era imparare un mestiere, oltre alla preghiera e alla religione (…) fin da bambino ho sempre avvertito l’impulso di tradurre pensieri e fantasie in immagini”. Nel 1964 prende la decisione di emigrare in Germania, dapprima in una cittadina nei pressi di Colonia e, in seguito, nel 1966, permanentemente a Berlino.

Adamo ed Eva di Mantovani

Nella città divisa dal Muro, inizia lentamente a dipingere e a sviluppare la propria tecnica, divenendo con il tempo un pittore professionista: dopo circa dieci anni riesce a mantenersi solo con la vendita dei suoi quadri. Abbandona definitivamente il posto in fabbrica dov’era impiegato. In Italia viene notato da Vittorio Sgarbi, suo compaesano, che promuove le sue opere e che lo fa notare ai collezionisti. Nella produzione artistica di Mantovani si può cogliere, a mio avviso, a primo impatto, lo stile surrealista, dove entrano in gioco motivi religiosi ed allegorici, riconducibili all’infanzia del pittore, che non dimentica mai le sue radici e la sua terra: nei suoi quadri spesso il paesaggio ferrarese si fonda con quello berlinese. Basti citare la sua mostra dal titolo “Il Po sotto il cielo di Berlino”. Mantovani è anche autore di diversi libri. Sono andato a trovarlo nel suo atelier nel centro di Berlino, dove mi ha accolto gentilmente e mi ha concesso un’intervista molto interessante riguardante la sua vita, la sua arte, Vittorio Sgarbi e, naturalmente, Berlino.


 

Signor Mantovani, secondo lei, esiste un confine tra arte erotica e pornografia. Se sì, qual è?

Non saprei dirlo. Forse dipende dalla posizione. Se un uomo dipinge una donna nuda in piedi è erotismo. Se poi la disegna in una posizione più esplicita è pornografia. Questa è, però, solo la mia definizione. Non ho delle idee ben precise a tal proposito. Credo che non ci sia poi una separazione così netta. Per quanto mi riguarda “Adamo ed Eva” è il quadro più erotico che abbia mai realizzato. Mi era stato richiesto da una galleria di Monaco, che aveva un cliente che faceva collezione di quadri di questo genere. Una ragazza francese si è prestata come modella a condizione che utilizzassi solo lei e che la dipingessi solo in quadri erotici.

Le sue donne rivendicano il proprio erotismo?


Dipende anche dal giudizio di chi osserva il quadro. Le mie donne sono emancipate. Questo è il mio modo di vederle.

Cupida di Mantovani

Perché nei suoi quadri, di solito, gli uomini sono rappresentati in dimensioni più ridotte rispetto alle donne? Ossia le donne sono dei giganti e gli uomini, invece, dei moscerini?

Bisognerebbe chiedere ad uno psicologo.

Perché questa inversioni di ruoli?

A me piace un po’ dissacrare le cose.

Cosa prova quando dipinge?

Con un occhio dipingo, con l’altro guardo la televisione. L’ispirazione mi viene prima di dipingere il quadro. Il dipingere per me è un lavoro automatico, meccanico, come cucire una maglia, tanto per fare un esempio. Nel mentre posso tranquillamente sentire la radio o ascoltare la televisione. Non entro certamente in un mondo esoterico.

Ha un osservatore ideale?

Soprattutto me stesso.

Ci sono cose che non riuscirebbe mai a dipingere?


Un’infinità. Non vorrei mai dipingere roba astratta. I temi brutali non mi piacciono. La violenza nei miei quadri è sempre mascherata.

Se non sbaglio lei ha iniziato a lavorare come operaio specializzato. Quando è giunta la decisione di guadagnarsi da vivere solo con l’attività di pittore?

Io non avevo mai pensato di diventare pittore professionista. Neanche da bambino o da ragazzo. Sì certo, mi piaceva disegnare. Era più che altro un istinto. Mi piaceva esprimermi così. L’idea di vivere come pittore, mi è venuta nel 1979, all’incirca due anni prima di licenziarmi dalla fabbrica dove ero impiegato. Nell’arco di questi due anni lavoravo e dipingevo contemporaneamente. Ho fatto un po’ di conti in tasca ed ho notato che vendevo facilmente, non a prezzi esorbitanti, ma guadagnavo i soldi necessari per vivere. Mi sono detto: “o la va o la spacca”. Nel caso non vada bene, ritorno alla Siemens, dove ero stato assunto come operaio specializzato da 13 anni. Il mio capo mi ha detto che se le cose mi fossero andate male, avrei ritrovato il mio posto. Per fortuna non ci sono più ritornato.

Hypatia di Mantovani

Vittorio Sgarbi ha giocato un ruolo importante nella vendita dei suoi quadri?

A Vittorio Sgarbi piace ciò che faccio, non so perché. Aveva parlato tanto bene di me con un signore che collezionava soprattutto opere d’arte del ’500-’600, con il quale è venuto a trovarmi a Berlino. Mi ha chiesto se volevo dipingere per lui. Ho accettato e sono divenuto l’unico pittore vivente, del quale ha collezionato delle opere. Per lui ho realizzato 30 quadri.

Secondo lei, i pittori, lasciano tracce autobiografiche nei loro lavori?


Sì, spesso. Ad esempio, per quanto mi riguarda, nel mio autoritratto, dove mi sono raffigurato da bambino. Nei miei quadri c’è sempre qualcosa che a che fare con la religione. Ho studiato dalle suore che mi hanno fatto un po’ il lavaggio del cervello. Per questo motivo Il mio rapporto con la religione è sempre molto critico e si riflette nella mia arte. Come per il quadro “Ipazia”. Ipazia era una filosofa, una matematica e un’astronoma, nata nella seconda metà del IV secolo: un periodo questo di transizione. La religione cattolica si era diffusa in tutto l’impero romano però c’erano ancora delle persone che non l’avevano accettata, tra cui Ipazia. Per questo motivo è stata perseguitata ed è morta esattamente come una martire. Dalla chiesa, non viene considerata martire, perché sono stati loro ad ucciderla. È deceduta in modo estremamente cruento: è stata letteralmente fatta a pezzi. Sembra che a dare l’ordine, sia stato Cirillo, l’Arcivescovo di Alessandria di Egitto, dove lei viveva. Cirillo, in seguito, è stato dichiarato santo. Pare che i suoi uomini l’abbiano assalita per strada, portata in una chiesa e fatta a pezzi con delle conchiglie. L’hanno accecata e le hanno strappato le carni. I resti poi li hanno bruciati. Nell’aureola che io ho disegnato, non sono raffigurati dei santi, bensì dei filosofi. Avevo sentito parlare per la prima volta di Ipazia, quando su di lei avevano realizzato un film dal titolo “Agora”, che in Italia non volevano proiettare. Allora ho pensato di farne un quadro, che sembra cattolico. Osservandolo bene non ha niente a che vedere con la religione. Queste sono le impronte che io lascio di me stesso. Un altro esempio è il quadro, un po’ dissacrante, “La sacra famiglia”, i cui membri sono, in realtà, i personaggi di un mio romanzo: la bambina bionda austriaca rappresenta Gesù bambina. Queste cose a me piacciono molto.

Osservando un quadro senza conoscerne l’autore si può affermare se è stato realizzato da un uomo o da una donna?

Non credo. Forse, per alcuni quadri sì. Se ad esempio si osserva un quadro che raffigura una ragazza nuda con un gattino, uno pensa istintivamente, che l’abbia fatto una donna, ma potrebbe sbagliarsi. Riguardo alcune tematiche, c’è una certa attinenza a pensare che l’autore sia una donna. Rimanendo ai nudi, le donne dipingono di solito donne nude, quasi mai uomini. Quindi nel nudo, ad esempio, potrebbe essere difficile determinare se l’autore è un pittore o una pittrice.

Schlaflosigkeit / Insonnia di Mantovani

Come definirebbe la propria arte?

Non sono surrealista, però non sono realista, astratto ad ogni modo non lo sono. Non saprei nemmeno dirlo, non mi sono mai posto il problema. Non saprei in quale categoria potrei rientrare, forse “pittura alla Mantovani”.

Nel suo quadro “Il Parto” è raffigurata una suora che tira l’orecchio ad un bambino, mentre una donna sta per partorire. Perché?

Quando io ero dalle suore, l’erotismo era tabù. In questo quadro, al contrario, i bambini sono obbligati ad osservare il parto. Questo è un tipo di erotismo un po’ strano perché raffigura la nascita di Gesù bambino, però in una maniera molto realistica. Ad un bambino che non prestava attenzione, la suora gli tira le orecchie.

In molti suoi quadri compare la figura di una bambina con il naso di Pinocchio. Perchè?


Quella bambina si chiama Pinocchia. Io ho scritto un romanzo in tedesco dal titolo “L’apoteosi di Pinocchio”. Dapprima avevo dipinto un quadro, dove vi era Pinocchio invecchiato insieme a sua figlia con il naso lungo. Poi qualcuno mi ha chiesto: “perché non fai la descrizione del quadro?”. Ed io ho risposto che non avrei fatto una descrizione, bensì avrei scritto un racconto intero. Cosa che è avvenuta. Pinocchia, nelle mie storie e nei miei quadri, viene narrata come una bambina strana e molto emancipata. Si lancia in tutte le avventure possibili, dove ne risulta sempre vittoriosa o quasi. Non è un soggetto negativo anzi la descrivo sempre come un personaggio molto simpatico.

Se non sbaglio, nei suoi quadri compare quasi sempre il Po. Rievoca così i paesaggi della sua infanzia?


Il Po è un tema molto ricorrente, però i paesaggi sono inventati. Sono nati dalla mia fantasia. Una volta ho realizzato “Notturno Padano”, dove insieme al Po ho dipinto un paesaggio estremamente realistico ma fittizio.

Quando e perché ha preso la decisione di trasferirsi a Berlino?

Avevo 22 anni, quando ho deciso di lasciare il mio paese. Dapprima mi sono trasferito in Germania occidentale, poi a Berlino, nel ’66. Sono giunto come “operaio ospite”, in una fabbrica di assi per camion in una cittadina vicino a Colonia. In seguito ho preso la decisione di trovare definitivamente lavoro a Berlino. Ero stufo di paesini e di città di provincia. Volevo vivere in una metropoli. E anche se Berlino fosse divisa, la parte ovest rimaneva sempre la città più grande della Repubblica Federale. Alla fine ci sono rimasto.

Quali sono state le sue prime impressioni sulla città?


È stato impressionante. Due giorni dopo il mio arrivo, il primo maggio, sono andato a Berlino est, che lo festeggiavano in grande. Mi ha colpito tantissimo la differenza, che c’era tra le due parti della città. Berlino est era ancora tutta piena di rovine: c’era ancora la vecchia Alexanderplatz, mezza distrutta, senza la Torre della Televisione, costruita successivamente. Era tutto molto strano come controlli che facevano. Mi pareva di essere in un film di guerra.

Ha avuto rapporti con la comunità italiana?


Non molti. A Berlino allora non c’erano così tanti italiani come oggi. Mi ero talmente adattato alla cultura tedesca, che ogni volta che ritornavo in Italia, mi prendevano per straniero.


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