Democrazia e populismo nel Festival di Letteratura Internazionale 2016 a Berlino

Festival di Letteratura Internazionale 2016 a Berlino - Foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Come ogni anno, il Festival di Letteratura Internazionale 2016 a Berlino si è svolto a settembre (dal 7 al 17), con un ricco e variegato programma, che ha spaziato dalla prosa alla lirica. Al Festival hanno partecipato oltre 200 autori ed autrici. 


Il Festival è stato diviso nelle sezioni “Letterature internazionali”, “Riflessi”, “Scienza e umanesimo”, “Ingiustizie nel 21simo secolo”, “Scritture giovani”, “Giornata del fumetto”, “Here! Here! There”, “The art of editig”, “Islamismo”, “Versopoli”, “Nuove voci tedesche”, “Incontro di giovani autori”, “Made in Germany”, “Ricordi”, “Artisti”.

Tra i grandi nomi presenti vi erano, tra gli altri, César Aira, Colm Tóibín, Liao Yiwu, Boualem Sansal, Emmanuel Carrère, Paolo Giordano, Nicola Lagioia, Han Kang, Mathias Énard, Sharon Dodua Otoo, Rolf Hochhuth, Deepti Kapoor, Yitzhak Laor, Connie Palmen, Margriet de Moor, Benedict Wells, Judith Kerr e Yanis Varoufakis.

Inoltre il festival è stato un’ottima vetrina per le promesse del panorama letterario mondiale.

Il titolo dell’edizione di quest’anno è stato “demokratie ohne populismus” (democrazia senza populismo).

Il direttore del festival nella "tenda degli autori" - foto: Emilio Esbardo

Nella "tenda degli autori" - foto: Emilio Esbardo

Herta Müller, Premio Nobel per la letteratura nel 2009, nella "tenda degli autori" - foto: Emilio Esbardo

La scrittrice Niña Weijers nella "tenda degli autori" - foto: Emilio Esbardo

Il 6 settembre 2016, ancor prima dell’inizio ufficiale, gli organizzatori hanno programmato un incontro con lo scrittore algerino Boualem Sansal, vincitore del “Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi” 2011, che ha presentato il suo libro “2084. La fine del mondo”, nel quale si traccia una fantasticata futura dittatura mondiale teocratica.

Il romanzo, che s’ispira chiaramente all’opera “1984” di George Orwell ed è introdotto al pubblico in sala dal presidente del Bundenstag Norbert Lammert, narra di un nuovo impero mondiale di matrice religiosa, l’Abistan, dove si parla esclusivamente l’idioma Abilang, sorto dalle macerie di una guerra totale contro gli infedeli pagani. Per realizzare un tale impero, i nuovi padroni del mondo hanno eliminato la cultura, la conoscenza e il libero pensiero attraverso la violenza, esercitata con frustate, lapidazioni, esecuzione negli stadi: metodi noti negli attuali e passati regimi totalitari.

César Aira - foto: Emilio Esbardo

Il discorso di apertura del festival, preceduto dal pezzo musicale “Divorce” di Fazil Say interpretato dai “16 Strings”, è stato tenuto, il 7 settembre, da César Aira. Il moderatore Knut Elstermann nell’introdurre lo scrittore, ha affermato che Aira merita di essere premiato con il Premio Nobel per la letteratura.

Nel frattempo, com’è stato comunicato dalla sua casa editrice tedesca Matthes & Seitz Berlin, l’autore argentino riceverà quest’anno il “Premio Iberoamericano de Narrativa Manuel Rojas”, che consiste in un assegno di 60.000 dollari, riconoscendogli il merito di aver pubblicato più di 90 libri di numerosi generi letterari, tra cui racconti brevi, romanzi, novelle, saggi, traduzioni.

Proprio nel suo discorso d’apertura, César ha parlato del piacere della lettura e della sofferenza dello scrivere dei grandi autori: “Chi ci ordina di voler scrivere meglio? Perché non scriviamo anche noi romanzi normali?”, ha affermato Aira, “Ci attiriamo l’antipatia di Dio e del mondo e nonostante tutto rimaniamo sempre coerenti al nostro lavoro, che ci rende la vita difficile”.

Il motivo Aira lo conosce molto bene: nelle grandi opere letterarie si trova la risposta ai grandi problemi della vita, soprattutto in un mondo in crisi di valori e in difficoltà economiche come quello odierno.

César Aira è nato nel 1949 a Coronel Pringles in Argentina. Oltre agli introiti da scrittore, si guadagna da vivere come docente e traduttore. Molte sue opere sono state pubblicate in numerose lingue. Il suo primo romanzo tradotto in tedesco è “Stausee” (2000). Al momento vive e lavora a Buenos Aires.

Aira, scrittore elogiato da Patti Smith e Carlos Fuentes, è uno dei maggiori esponenti della letteratura argentina contemporanea, di cui fanno parte tanti altri autori di fama internazionale, tra cui, Ernesto Sábato, José Hernández, Jorge Luis Borges e Julio Cortázar.

John Freeman - foto: Emilio Esbardo

La giornata del 10 settembre è iniziata per me con la presentazione del secondo numero della rivista biennale “Freeman’s”, che porta il nome del suo ideatore John Freeman, uno dei più importanti critici letterari degli Stati Uniti.

In “Freeman’s” vengono pubblicati scritti inediti: la nuova antologia s’intitola ed è dedicata alla “Famiglia”, che, attraverso le opere scelte, viene tracciata come un’entità instabile, difficile da definire con certezza. Ad esempio: Sandra Cisneros traccia la quotidianità del suo nucleo familiare allargato, composto dai suoi numerosi ex; Marlon James racconta le telefonate annuali di sua madre al padre assente, cantandogli “Felice Compleanno”; Claire Vaye Watkins descrive le depressioni post parto di una donna; Aminatta Forna narra gli strascichi e l’eredità della schiavitù in una famiglia a Washington; Aleksandar Hemon ironizza sulla testardaggine e la cecità di suo zio nel voler rimanere comunista, nonostante sia stato incarcerato per due anni in un gulag sovietico. Le recensioni di John Freeman, ex editore di “Granta”, appaiono su oltre 200 riviste/quotidiani di lingua inglese a livello internazionale.

All’incontro “Imprese in tribunale. Lotte globali per i diritti umani” con Wolfgang Kaleck, ho iniziato il mio cammino letterario sulle ingiustizie sociali e le inique divisioni dei beni, che flagellano il nostro pianeta e che caratterizzano il nuovo secolo. Kaleck ha descritto il lavoro dell’organizzazione per i diritti umani ECCHR, con sede a Berlino. Ed in particolare della morte di 260 operai, a causa di un incendio, in una fabbrica tessile pachistana a Karachi, la seconda città più popolosa della terra. Per il suo impegno civile, Kaleck ha ricevuto nel 2014 il Premio Hermann Kesten.

Shumona Sinha - foto: Emilio Esbardo

Shumona Sinha - foto: Emilio Esbardo

A proposito d’ingiustizie, interessante è stato l’incontro con la scrittrice indiana Shumona Sinha, che con il suo secondo romanzo “Assommons les pauvres !” (“A morte i poveri!”) aveva acceso un forte dibattito sui richiedenti asilo.

Nel suo racconto autobiografico (Sinha ha lavorato a Parigi come interprete presso l’ufficio per rifugiati) descrive l’increscioso accaduto della protagonista – anche lei giunta dapprima a Parigi come emigrante – che in un atto di rabbia ha colpito con una bottiglia uno straniero nella metro. Attraverso la sua confessione ai poliziotti, il lettore viene a conoscenza del sistema disumano che si occupa dei richiedenti asilo.

Al Festival di Letteratura ha presentato il suo nuovo romanzo “Calcutta”, nel quale narra i grandi e ancora costanti cambiamenti della sua città, dopo esservi tornata dopo tanti anni. Ai presenti ha dipinto una metropoli che si divide tra modernità e passato. Nonostante Calcutta sia destinata a divenire come le città occidentali, vi sono ancora zone rimaste immutate, dove, ad esempio, per le donne è pericoloso passare da sole.

Shumona Sinha, classe 1973, si è trasferita nel 2001 a Parigi, dove ha compiuto gli studi presso la Sorbona e dove tutt’ora vive e lavora.

“Calcutta” ha ricevuto il riconoscimento “Prix du Rayonnement de la langue et de la litterature Francaise”, mentre “A morte i poveri!” i riconoscimenti “Prix Eugene Dabit du roman popoliste” e “Prix Valerie-Larbaud”.

Deepti Kapoor - foto: Emilio Esbardo

Un’altra scrittrice indiana, Deepti Kapoor, nata nel 1980 a Moradabad e trasferitasi a Nuova Delhi, descrive in una maniera ancora più forte i contrasti delle grandi città indiane. A proposito della capitale indiana, ha dichiarato che vi sono zone ancora così tradizionali e abbandonate a se stesse, dove le donne possono solo camminare se accompagnate da altri uomini o, se le attraversano in macchina, con accanto una pistola.

Al centro del suo romanzo “A Bad Character” (Un cattivo carattere), presentato al festival, vi sono Nuova Delhi, una donna, il desiderio e l’emancipazione sessuale femminile in una società restrittiva. La protagonista, Idha, è una giornalista single, che si avventura di notte per le vie di una città in costante evoluzione, tratteggiando esperienze a base di sesso e droghe. Idha intraprende una relazione, che potrebbe essere l’espressione dell’irrazionalità del sesso e che descrive così: “Io sono bella, lui è brutto. E il mistero è: mi eccita”. La libido viene provocata, probabilmente, dal fatto che quest’uomo rappresenta tutto ciò che sua zia, donna cresciuta nella più profonda e gretta tradizione indiana, disprezza ed di cui ha paura. 

La stessa Deepti Kapoor ha lavorato per oltre dieci anni come giornalista.

Neel Mukherjee - foto: Emilio Esbardo

Neel Mukherjee - foto: Emilio Esbardo

Altro scrittore indiano, che ho seguito durante il festival, nato a Calcutta il 1970, è stato Neel Mukherjee, il quale introducendo la sua nuova opera “The Lives of Others” (La vita degli altri), ha trattato anche il tema del patriarcato, che, come descritto già da Shumona Sinha, persiste in molte zone dell’India.

“The Lives of Others” pubblicato nel 2014 ha avuto una forte risonanza internazionale. Il romanzo racconta la storia di una dinastia della classe benestante, a partire dal 1967, il cui protagonista principale è Supratik, che rompe il suo legame familiare per aderire ad un gruppo di guerriglieri maoisti. Il titolo ricorda l’omonimo, celebre film sulla Stasi “The Lives of Others”. Non a caso la critica ha definito unanimemente l’opera come il “Buddenbrooks” indiano.

Alla domanda della moderatrice Priya Basil, se fosse vero, l’autore ha dichiarato di essersi imbevuto della letteratura e della cultura di lingua tedesca, sin dal liceo, quando per acquistare libri, risparmiava i soldi che il padre gli dava per l’autobus, raggiugendo scuola a piedi. Oltre a Thomas Mann ha citato, tra i suoi preferiti, lo scrittore austriaco Peter Handke e la regista Margarethe von Trotta. Ha frequentato inoltre il Goethe-Institut, approfondendo gli studi germanistici.

Il titolo “The Lives of the Others”, ha spiegato, lo ha scelto perché è affascinato dalle vite delle persone che vogliono cambiare il mondo. Voleva scrivere un libro che fosse come una sberla sulle facce delle persone: si è sempre chiesto cosa succede se la vita di una persona rimane sempre piatta, costantemente monotona. Prima o poi, dal suo punto di vista, vi è un momento di esplosione in questi individui, perché anche loro provano l’impulso di migliorare le proprie esistenze. Questo concetto è ancora più forte se si pensa che in India non esiste la redenzione, si crede semplicemente alla vita e alla morte e a nient’altro. La politica per lui non consiste necessariamente nel cambiare il mondo bensì “è una maniera di stare nel mondo”. La grande letteratura dovrebbe rappresentare un’esperienza umiliante per i lettori. E se la cultura odierna è incentrata, ad esempio, su cosa mangia la Paltrow a mezzogiorno, il suo sesto senso gli suggerisce che l’umanità non sia proiettata nella giusta direzione.

Nel suo primo romanzo “Past Continuous” (2008) Neel Mukherjee ha affrontato la situazione tipica dell’immigrato illegale di Calcutta in Gran Bretagna, il quale, per superare le difficoltà quotidiane, scrive un racconto su una nobile inglese, trasferitasi in India all’inizio del 20simo secolo, per insegnare Inglese, Musica e propagare lo stile di vita occidentale.

A tal proposito Abubakar Adam Ibrahim e Stella Gaitano hanno presentato il progetto “Refugees Worldwide” (rifugiati a livello internazionale) della fondazione Peter Weiss, che affronta questa tematica, non più attraverso una visione eurocentrica, bensì dal punto di vista dei profughi. Secondo i dati dell’Agenzia UNHCR, nel 2015 ve ne sono stati all’incirca 16 milioni e 100 mila, dei quali l’Europa ne accoglie approssimativamente 4 milioni 390 mila. Ascoltando le letture dei loro racconti, la prima impressione è che gli europei non hanno nessuna corretta visione del fenomeno. È un problema emergenziale che dovrebbe essere affrontato celermente e con serietà.

Liao Yiwu - foto: Emilio Esbardo

Riguardo alla triste situazione di una persona, che fugge a persecuzioni, guerre, carestie, cambi climatici, la si può comprendere, ad esempio, leggendo il nuovo libro “Die Wiedergeburt der Ameisen” (La rinascita delle formiche) di Liao Yiwu, nel quale si apprendono i quattro anni di torture ed umiliazioni che ha subito in carcere in Cina, rinchiuso per aver pubblicato la poesia “Massacro” e per aver compartecipato alla realizzazione del documentario sulla brutale repressione del 4 giugno 1989 delle manifestazioni di massa di piazza Tienanmen, organizzate da intellettuali, operai e studenti.

Liao Yiwu, classe 1958, è riuscito, in seguito, a scappare via dalla Cina nel 2011, e a stabilirsi in Germania, dove è divenuto un apprezzato scrittore ed ha ricevuto, per le sue opere, il Premio Geschwister Scholl e il Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi. In madre patria, negli anni ’80, dopo essere cresciuto nella totale povertà, si era fatto un nome come poeta e al contempo era stato inserito nella lista nera nel 1987.

Alexandra Kleeman - foto: Emilio Esbardo

Forse un tema più leggero ma altrettanto importante e significativo nei Paesi occidentali industrializzati è stato discusso durante la presentazione del libro “A wie B und C” (A come B e C) della scrittrice statunitense Alexandra Kleeman: l’influenza della pubblicità e dei reality show nella formazione degli attuali canoni di bellezza.

Come si legge nella descrizione del romanzo:

“A è una giovane attraente ragazza.
B è la sua compagna di stanza che vorrebbe sembrare come lei a qualsiasi costo.
C è come Amico che guarda con A volentieri documentazioni sugli squali e pellicole porno”.

Dunque un’aspra critica, piena d’umore, contro l’ossessione moderna del corpo perfetto, tema trattato anche nel suo primo libro “You Too Can Have a Body Like Mine” (Tu puoi avere un corpo come il mio).

Classe 1986, originaria del Colorado, Kleeman vive, studia e lavora a New York. I suoi racconti e saggi sono stati pubblicati da rinomate riviste e quotidiani come “The Paris Review” e “The Guardian”.

Ilaria Gaspari - foto: Emilio Esbardo

Nicola Lagioia - foto: Emilio Esbardo

Valerio Magrelli - foto: Emilio Esbardo

Quest’anno al festival hanno aderito molti italiani:

Valerio Magrelli, nato il 1957 a Roma, traduttore e docente universitario di Letteratura francese, entrato a far parte del panorama letterario italiano a 23 anni con la pubblicazione “Ora serrata retinae”, è  stato invitato a partecipare alle serie di eventi intitolati “Poetry Night” (Notte della poesia).

Ilaria Gaspari, nata il 1986 a Milano, è stata invitata a partecipare ad una serata dedicata a quattro giovani scrittrici, influenzate da Shakespeare. Gaspari al momento vive e lavora a Parigi. Il suo romanzo noir di debutto s’intitola “Etica dell’acquario”. Oltre a lei, all’evento intitolato “Much Ado about nothing” (“Molto rumore per nulla” in riferimento alla commedia di Shakespeare), vi erano Mercedes Lauenstein, Rebecca F. John e Nina Polak.

Paolo Giordano, classe 1982, di Torino, vincitore del Premio Strega 2008 con il romanzo “La solitudine dei numeri primi”, ha partecipato al Festival, presentando il suo nuovo libro “Il nero e l’argento”: storia di una coppia felice, che assume l’anziana bambinaia A., la quale diviene testimone della relazione di una giovane famiglia, prima di morire di cancro. Paolo Giordano ha spiegato al pubblico tedesco che la famiglia numerosa ed unita italiana di un tempo non esiste più. A causa dell’alta percentuale di disoccupazione e della perdita del posto fisso a vita, le nuove coppie hanno paura di sposarsi o di mettere al mondo bambini a causa della grave crisi economica, che colpisce duramente il Bel Paese.

Paolo Giordano - foto: Emilio Esbardo

Paolo Giordano - foto: Emilio Esbardo

Paolo Giordano - foto: Emilio Esbardo

Nicola Lagioia, nato il 1973 a Bari, è stato invitato al Festival di Letteratura, per presentare il romanzo “La ferocia”, con il quale ha vinto il Premio Strega 2015, in occasione dell’edizione tedesca dal titolo “Eiskalter Süden”, pubblicato il 12 settembre 2016 dalla casa editrice “Secession Verlag für Literatur”.

Il romanzo inizia con il ritrovamento del corpo di Clara Salvemini, primogenita della più poderosa famiglia di costruttori locali. A prima vista si tratta di un suicidio. Con lo scorrere della trama si sviluppa il tema dell’intreccio di interessi tra politica, mafia e istituzioni, tipico del sud Italia. Lagioia, durante la serata, ha affermato, che dal suo punto di vista, l’Italia è come un manicomio interessante, una specie di gabinetto del dott. Caligari. È una nazione piena di contraddizioni: allineata ai Paesi più ricchi ma da sempre in ritardo nelle modernità e al contempo inventrice del fascismo. Come esempio, Lagioia ha citato la modernità descritta nei libri di metà ottocento di Dickens, che in Italia giunge solo nel ‘900.

Si è discusso inoltre della crisi economica e morale a livello internazionale scoppiata dopo la caduta del Muro nel 1989, quando la gente allora celebrava la fine della Guerra Fredda e credeva all’inizio di un’epoca florida e senza guerre. Questa utopia o sogno si è interrotto con gli attacchi alle Torri Gemelle, che hanno inaugurato il 21simo secolo.

Vorrei citare brevemente l’interessante lettura di Ivan Vladislavic accompagnata dalle belle note jazz di Günther Baby Sommer, che hanno reso l’evento un incontro intimistico e personale, portando gli spettatori a riflettere attentamente su temi difficili come la ricerca dell’identità, dell’esilio e dell’Apartheid. Sono stati letti brani tratti da “Double Negative” e “Exploted View Johannesburg”, che tracciano il volto di Johannesburg, città del Sudafrica. “Double Negative” è un libro arricchito dalle immagini del fotografo David Goldblatt.

Günther Baby Sommer - foto: Emilio Esbardo

Namwali Serpell - foto: Emilio Esbardo

Altra elogiata scrittrice africana, presente al festival è Namwali Serpell, vincitrice dell’importante premio Caine Prize, che premia annualmente il miglior racconto breve in lingua inglese di autori del continente nero. L’autrice ha discusso sul suo racconto “The Sack”, grazie al quale ha ottenuto il riconoscimento succitato, che ha come temi principali l’amore, l’amicizia e i ricordi, descritti attraverso la relazione tra due uomini e una donna. Nata il 1980 in Zambia, da bambina si è trasferita con la propria famiglia negli Stati Uniti, dove ha compiuto i suoi studi universitari.

Forse ciò che ha provocato il ritorno dei populismi sono le ampie diseguaglianze sociali a livello internazionale. Le banche e la finanza vengono additate come i colpevoli della crisi economica che sta caratterizzando il 21simo secolo. Le popolazioni hanno perso la fiducia nella politica e nei mezzi d’informazione. Proprio di questo si è discusso durante l’incontro intitolato “diseguaglianze nel 21simo secolo. Progresso, capitalismo e povertà globale” con Peter Bofinger, David Graeber, Michail Hudson e Judith Niehues.

La domanda che si sono posti gli interlocutori in maniera molto spontanea è stata: “Cosa se ne fanno di tutti questi soldi le persone ricche? Ci si siedono di sopra?” Secondo il parere di alcuni, essi li accumulano avidamente senza reinvestirli per creare posti di lavoro, come spesso viene affermato. Basti pensare che solo nelle banche tedesche vi è depositato qualcosa come un trilione di euro. Anzi la gente facoltosa tende a sfruttare il lavoro altrui, sottopagando i dipendenti. Dalla crisi ne approfitterebbero principalmente gli istituti di credito, perché, tenendo conto che nessuno ha più il coraggio d’investire, i soldi della gente rimangono all’interno delle banche. Secondo alcuni interlocutori, forse, la soluzione al problema sarebbe la statalizzazione dei servizi essenziali per la popolazione. I politici dovrebbero promulgare delle leggi che impediscano ai pochi di arricchirsi dismisuratamene come negli Stati Uniti e che possano frenare la speculazione tassando le compagnie che tentano di monopolizzare. Le tasse dovrebbero rendere minore il profitto degli speculatori. Diminuendolo, chi oggi specula, in futuro non lo farebbe più, perché non sarebbe più vantaggioso.

Yanis Varoufakis - foto: Emilio Esbardo

Yanis Varoufakis - foto: Emilio Esbardo

Yanis Varoufakis - foto: Emilio Esbardo

Yanis Varoufakis - foto: Emilio Esbardo

Un approfondimento sul sistema finanziario europeo è stato fatto durante l’incontro con l’ex discussissimo Ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, moderato da Joseph Vogl (Professore di letteratura moderna tedesca e Media presso l’Università Humboldt e Princeton), i quali si augurano un’inversione di rotta dopo decenni di selvaggio neoliberalismo, che detta le regole sociali in Europa e a livello internazionale. L’idea che i mercati finanziari debbano creare da soli le proprie regole, senza controllo degli organi nazionali, e l’alto tasso di debiti hanno tolto lentamente la sovranità agli stati e conseguentemente ai popoli. I politici sono divenuti uno strumento nelle mani dei finanzieri. Varoufakis ha spiegato in una sala strapiena (a quanto pare l’ex ministro è molto amato dagli stessi tedeschi), che i debiti si creano, non perché i poveri non hanno i soldi per ripagarli, bensì, perché i ricchi vogliono arricchirsi sempre di più. Il debito in sé non esiste, è solo una convezione societaria, un’invenzione dell’uomo per creare le classi sociali.

Nonostante ciò, lui i debiti della Grecia avrebbe voluto ripagarli. Avrebbe voluto far stringere la cinghia ai cittadini, per poi far ripartire l’economia celermente. Le parti contraenti hanno voluto furbescamente, dal suo punto di vista, azionare un meccanismo a catena, per portare la Grecia ad accumulare sempre più debiti e a svendere così i propri beni. A causa di tali dichiarazioni, è stato definito antieuropeista dal suo collega tedesco Schäuble. Al termine dell’incontro Varoufakis ha pronunciato delle frasi durissime: “L’Europa è un grande fallimento. Il termine solidarietà è scomparso, movimenti sempre più radicali emergono sul suolo europeo”. Crede che stiamo ripetendo gli errori degli anni trenta della grande depressione. Nel 2008, quando è scoppiata la crisi, gli Stati Uniti avevano le strutture necessarie per tamponarla, l’Europa no. Al termine, l’ex ministro ha ricevuto lunghi e sentiti applausi.

Ulrike Guérot - foto: Emilio Esbardo

Riguardo l’Europa e il progetto europeo, è stato molto interessante l’incontro “Perché l’Europa deve diventare una repubblica! Un’utopia politica!” con Ulrike Guérot, fondatrice del “Laboratorio di Democrazia europeo” (European Democracy Lab) con sede a Berlino, attraverso il quale sostiene una democrazia post-nazionale tenuta insieme da una rete di regioni e città. 

Lei stessa nella sua pagina Internet si definisce così: “La dott.ssa Ulrike Guérot è una giornalista europea, che ha diffuso il concetto di res publica europaea. Nell’aprile 2013 ha elaborato, in collaborazione con lo scrittore Robert Menass, un manifesto per la creazione di una Repubblica europea”.

Ulrike ha spiegato, in una sala strapiena, nonostante il caldo torrido, il motivo della scelta del nome “Repubblica europea”. I termini o slogan, che si utilizzano per diffondere idee e concetti, ha affermato Guérot, sono fondamentali per la riuscita del progetto, che si ha in mente. A tal proposito ha citato l’esempio del motto adoperato per far accettare la legge sul matrimonio gay in California: la prima volta gli ideatori hanno creato lo slogan “Right to marry”, al quale hanno reagito in pochi, perché “right” (“diritto”) non è un concetto radicato nella tradizione americana. Al contrario quando hanno utilizzato la frase “Freedom to marry”, l’80% della popolazione si è espressa a favore della legge, perché “Freedom” è un concetto intrinseco nella società americana, nella quale nessuno ha diritti ma libertà sì.

Ulrike Guérot e Robert Menass hanno scelto di utilizzare il termine “Repubblica”, perché viene compreso e accettato nella maggioranza degli stati europei. Ad esempio: “Repubblica italiana”, “Repubblica francese”, “Repubblica federale tedesca”, etc.

Dunque lo slogan “Repubblica europea”, potrebbe essere di enorme aiuto per il superamento degli Stati Nazionali a favore di una comunità europea. Inoltre tali termini non debbono essere lasciati sfruttare dai populisti, come Marine Le Pen, che per raccogliere consensi, si rivolge agli elettori con “je suis la République”.

Quello che lei, ad oggi ritiene essere ancora un’utopia, potrebbe trasformarsi in realtà se si creassero i presupposti necessari:

– TUTTI I CITTADINI SONO UGUALI DI FRONTE ALLA LEGGE senza distinzione di lingua e nazione. Questo è un concetto fondamentale, che se non viene recepito al più presto dai politici, potrebbe far fallire l’Unione Europea. Attualmente i cittadini sono discriminati per nazioni. Ad esempio, la tessera sanitaria di una persona, che vive in Austria, non è valida in Germania se non in casi d’urgenza. Dunque necessità di medesimi diritti e doveri: stessi diritti sociali, stessi diritti alla salute e unico sistema fiscale.

L’Europa, partita per realizzare un mercato unico ed una moneta unica, ha escluso finora i cittadini dal progetto. Non li ha resi sovrani. Per far sì che la Repubblica europea passi dall’essere un’utopia in un progetto raggiungibile, realizzabile, bisogna rendere i cittadini sovrani e fare in modo che gli stati rinuncino alle loro autonomie.

Ulrike Guérot, che ha posato gentilmente per me al termine dell’incontro, lavora attualmente in Austria come direttrice del Dipartimento Politiche Europee  presso la Donau-Universität.

Emmanuel Carrère - foto: Emilio Esbardo

Emmanuel Carrère - foto: Emilio Esbardo

Emmanuel Carrère, presentando, il suo nuovo libro “Il regno” (sottinteso di Dio), ha esplorato uno degli aspetti, che ha caratterizzato maggiormente il continente europeo, contribuendo alla sua formazione contemporanea: la religione cattolica. Per fare questo risale agli albori del cristianesimo. O meglio detto, affronta il rapporto dei cittadini di fede cristiana con il Nuovo Testamento.

Carrère, classe 1957, si è formato presso il prestigioso e selettivo Istituto di studi politici di Parigi, prima di intraprendere la sua carriera di scrittore e critico. Il suo ultimo romanzo, autobiografico inizia con la crisi esistenziale di circa venticinque anni fa, che tenta di superare attraverso l’avvicinamento al cattolicesimo, avvenuto grazie al suggerimento della pia matrigna Jacqueline, che gli ha consigliato come guida spirituale il seducente Hervé.

Non sono in tanti ad avere delle crisi esistenziali, a chiedersi che senso possa avere la vita, che essa non è qualcosa di ovvio, ma un grande punto interrogativo. La maggioranza delle persone, vive meccanicamente la quotidianità, impegnata nella loro routine di ogni giorno: andare al lavoro, fare carriera, pagare le bollette, incontrarsi con gli amici o il/la fidanzato/a, avere figli, risparmiare soldi per acquistare casa, pianificare le vacanze. Sanno che un giorno dovranno morire, ma non ci pensano, perché non ne hanno il tempo necessario.

Per la maggioranza degli europei, anche per quelli che hanno perduto la fede, il cristianesimo ha tutt’ora una profonda influenza nelle loro vite private e nelle norme societarie, perché molti valori del cattolicesimo, continuiamo a portarli dentro di noi. Addirittura molte virtù cristiane, secondo Carrère, potrebbero aiutarci a superare la crisi di valori che ha colpito il nostro intero continente.

Rolf Hochhuth - foto: Emilio Esbardo

Rolf Hochhuth - foto: Emilio Esbardo

Rolf Hochhuth - foto: Emilio Esbardo

Altro personaggio dal carattere molto forte è lo scrittore Rolf Hochhuth, che, all’inizio dell’incontro, si è scagliato immediatamente contro l’adesione della Germania e dell’Europa alla Nato. L’autore, classe 1931, era salito alla ribalta nel panorama teatrale tedesco e internazionale con la pubblicazione dell’opera “Der Stellvertreter” (“Il Vicario”).

Il testo, dato alle stampe il 1963, rappresentato dapprima a Berlino e poi a Londra sotto la regia di Erwin Piscator, provocò un grande scandalo, perché in esso viene denunciata la responsabilità passiva del Papa Pio XII riguardo l’Olocausto. Il titolo fa riferimento al Vicario di Cristo. Nel 1979, nel suo dramma “Juristen” (“Uomini Di Legge: Tre atti per sette personaggi”), delinea il ruolo giocato dai giudici ex nazisti nella Repubblica Federale.

Hochhuth ha partecipato al festival di letteratura per presentare la sua ultima opera intitolata “Das Grundbuch: 365 Sieben- bis Zwölfzeiler”, che è un sunto della sua carriera letteraria, che spazia dal teatro alla poesia e dove fa il bilancio della sua vita. L’autore ha avuto una carriera brillante ed è divenuto, con il tempo, una istituzione in Germania.

Rolf Hochhuth, con i suoi 85 anni suonati, ma sempre combattivo, è stato lo scrittore più anziano del festival. La sua combattività e caparbietà, l’ha messa in mostra, quando ha raccontato di aver inviato in passato una lettera alla Cancelliera Angela Merkel e al Presidente della Repubblica Federale Joachim Gauck, chiedendo di uscire dalla Nato. Gauck ha risposto, brevemente, dicendo che, non è così facile, essendo il legame troppo forte. Merkel, invece, ha ignorato la missiva. L’adesione alla Nato, secondo Hochhuth, è molto pericolosa sia per la Germania sia per l’Europa, perché porta a prendere delle decisioni sbagliate. Inoltre il popolo tedesco non è sovrano.

La gigantesca struttura di spionaggio, con base a Berlino, che controlla tutti i cittadini come ai tempi di Stalin, Hitler e Mao, in realtà, è sotto la direzione degli statunitensi. Ad esempio i quattro missili nucleari, stazionati a Francoforte, sono sotto la vigilanza degli americani. Nonostante i tempi bui, Hochruth invita all’ottimismo, in gioco vi è il bene dei nostri figli e nipoti. Rolf ha ricevuto numerosissimi premi, tra cui il “Kulturpreis Deutsche Sprache”, per “aver contribuito al riconoscimento, allo sviluppo e al mantenimento del tedesco come idioma di cultura”.

Judith Kerr - foto: Emilio Esbardo

Judith Kerr - foto: Emilio Esbardo

Christoph Rieger, il responsabile della sezione per bambini, del Festival di Letteratura, nell’introdurre uno degli incontri più attesi, ha dichiarato, che, da sempre avrebbe voluto invitare Judith Kerr.

Finora non aveva osato contattarla, a causa dell’età della scrittrice (93 anni) e per i numerosi impegni che ha in patria. Però, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro in traduzione tedesca, intitolato “Ein Seehund für Herrn Albert”, lei ha risposto celermente alla richiesta di Rieger.

La vita di Judith è stata molto burrascosa. Nata nel 1923, figlia dello scrittore e giornalista Alfred Kerr, è stata costretta a fuggire, insieme con la famiglia da Berlino con la presa al potere dei nazisti nel 1933.

Se non stiamo attenti, la crisi attuale di valori ed economica, che attanaglia l’Europa, se non affrontata in tempo, potrebbe consegnare il potere nelle mani di pericolosi movimenti populisti, che provocherebbero dittature simili al nazismo.

Judith Kerr - foto: Emilio Esbardo

In una sala strapiena di bambini entusiasti, l’autrice ha risposto alle loro domande, riguardante soprattutto la sua vita da fuggitiva, che lei ha già descritto nel best-seller internazionale “Quando Hitler rubò il coniglio rosa” (1971), dedicato a tutti coloro i quali sono stati derubati della propria infanzia dal dittatore nazista. 

La prima domanda posta dai bambini è stata proprio come era la vita di una fuggitiva. La risposta ha sorpreso un po’ tutti: “Potrebbe sembrare stupido, ma io e mio fratello siamo sempre stati d’accordo, che la nostra infanzia da rifugiati è stata molto migliore, che l’avremmo goduta molto di meno, se non fosse successo nulla e se fossimo rimasti a Berlino. È molto bello giungere in un Paese, dove non si comprende una parola, e dopo un anno si padroneggia la lingua; è molto incoraggiante. Lo abbiamo trovato grandioso, e lo dobbiamo ai nostri genitori, perché non ci hanno mai fatto percepire come fosse terribile tutto ciò che stava accadendo”.

Prima della fuga definitiva con la famiglia, una sera, suo padre, nonostante fosse gravemente ammalato, ha lasciato l’appartamento, di notte, per riparare a Praga, perché lo avevano avvisato dell’imminente retata della polizia. Alfred Kerr non era solo ebreo, faceva parte della resistenza contro Hitler. Judith, anche se abbia trovato strano questo episodio, non aveva la minima idea della situazione. Le sue preoccupazioni erano altre. Ad esempio, in Svizzera, la prima tappa da esuli, ha subito come un trauma, dovuto alla gelosia, quando i suoi genitori hanno regalato una bicicletta a suo fratello. In terra elvetica, non sono potuti rimanere a lungo, perché i media non accettavano gli articoli del padre, per non irritare Hitler. Da qui la decisione di trasferirsi a Parigi, di cui si è innamorata immediatamente, apprendendo celermente l’idioma del posto. Per Alfred Kerr, Parigi era come una seconda patria, parlava correntemente la lingua, perché la sua governante era stata una francese. La famiglia aveva preso in affitto un piccolo appartamento a Parigi, dove, dalla finestra, s’intravedeva la Torre Eiffel. Il padre, senza mai perdere il senso dell’ironia, anche nei momenti più bui, le chiedeva spesso: “Non è bello essere una fuggitiva?”.

Dunque altro shock ed altra fuga nel Regno Unito, quando vi fu l’invasione della Francia dei nazisti. In Gran Bretagna, l’autrice ha scoperto il suo talento per il disegno. I suoi schizzi abbelliscono tutti i suoi 34 libri e sono indivisibili dalla sua scrittura. L’Inghilterra è divenuta, definitivamente, la sua patria. Qui ha vissuto le prime bombe della seconda guerra mondiale. Si ricorda ancora della paura della gente e delle cantine dove ci si riparava. Era una situazione a cui ci si abituava ed anche, in questo caso, è stata fortunata per non essere mai stata testimone di eventi terribili. Per alleggerire l’argomento Judith Kerr, al termine, ha parlato del suo amore verso i gatti ed ha raccontato di averne posseduto uno matto, il quale non cacciava né topi né uccelli, ma era golosissimo dei fagioli verdi. Questo gatto aveva una gran paura degli alberi di natale ed era gelosissimo: una volta con la coda ha cambiato canale, quando sullo schermo del televisore è apparso un altro felino dal pelo bianco e nero.

Judith Kerr - foto: Emilio Esbardo

Judith Kerr - foto: Emilio Esbardo

I libri di Judith Kerr (più di 9 milioni di esemplari venduti) sono stati tradotti in 25 lingue. L’autrice ha ricevuto numerosi riconoscimenti come il Premio per la letteratura giovanile tedesca (1974) o l’“Ordine dell’Impero Britannico” (2012). Molte scuole a Berlino e a Londra portano il suo nome. Prima di accommiatarsi ha dichiarato di voler continuare la sua attività di scrittrice. “Quando Hitler rubò il coniglio rosa” è stato il suo titolo più sofferto. Non avrebbe voluto citare il dittatore nazista, ma suo padre le ha fatto cambiare idea: “Io avrei voluto solo parlare della mia famiglia. Ma mio padre mi ha fatto capire che anche lui era presente e che bisognava ricordarlo nella sua malvagità”.

Leggere un libro significa anche conversare, instaurare un dialogo con il suo autore, inserito in un luogo geografico preciso, con le sue tradizioni e cultura. Leggere libri insegna ad allargare i propri orizzonti, ad apprendere, che vi sono pluralità d’idee, di convinzioni, d’ideali, di civiltà, di modi di vedere e pensare, che, attraverso la conoscenza, ci si abitua a rispettarli; a rispettare le diversità. L’ignoranza, opposto di conoscenza, crea un terreno fertile per i populismi, che quando degenerano, favoriscono intolleranza, violenza, dittature, guerre civili o tra nazioni. Cosa significhi vivere nella paura, essere incarcerato solo per aver espresso la propria opinione, lo si può apprendere, leggendo opere autobiografiche o romanzate, di autori, che la vivono sulla propria pelle.

Per questo motivo, ho seguito con grande interesse l’incontro con Tienchi Martin-Liao, Herta Müller, Yu Jie e Liao Yiwu, dedicato al Premio Nobel per la pace, Liu Xiaobo, scrittore, docente, attivista per i diritti umani cinese, in carcere dal 2008, per aver aderito al movimento “Charta 08”.

Herta Müller - foto: Emilio Esbardo

Mi ha colpito molto la poesia di Liao Yiwu, “Elegia del 4 giugno”, la cui musica d’accompagnamento e il ritornello straziante hanno evocato l’atmosfera tipica dei funerali e il dolore straziante di una donna per la perdita di un’amante, durante la soppressione sanguinosa delle manifestazioni di Piazza Tienanmen nel 1989. Ascoltando la composizione e i versi di Yiwu, si comprende perché molte persone in Cina (e nel resto del pianeta) combattono contro i regimi dittatoriali, nonostante rischino galera, torture, umiliazioni pubbliche e morte. Ascoltando “Elegia del 4 giugno” si può percepire quanto terribili siano populismi, dittature, intolleranza, guerre.

La luna avvolge le cime degli alberi
Penso alla mia amata
Per sempre dormiente, sepolta sottoterra.
Come da in lontananza si odono degli spari,
ancora vivi nella memoria
(…)
La luna si muove tra i nostri ricordi
Penso alla mia amata
Io, sopravvissuto, invecchio incessantemente
Voi morti rimarrete per sempre giovani
(…)
Fratellino oggi è il tuo compleanno
Apparecchierò del vino per te
Solo per te e me
Ti vedo in sogno
(…)
-TRADUZIONE LIBERA DELL’AUTORE DELL’ARTICOLO-

La notte del 3 giugno 1989 l’Esercito Popolare di Liberazione iniziò la marcia verso piazza Tienanmen. I soldati spararono sulla folla dei manifestanti, composta principalmente da studenti, docenti e intellettuali. I carri armati distrussero veicoli e schiacciarono le persone. Il 5 giugno i parenti delle vittime e la popolazione tentarono di entrare in Piazza Tienanmen, circondata dall’esercito. I militari risposero, aprendo il fuoco ai civili, colpendoli alla schiena mentre questi fuggivano via, in preda alla paura.

Tutt’oggi le stime dei morti variano. Secondo le fonti ufficiali sono “alcune dozzine”. Secondo la Croce Rossa  2600 vittime e 30.000 feriti. Secondo le recenti divulgazioni di Wikileaks, non vi sarebbe stata nessuna carneficina.

Gerhard Stadelmaier - foto: Emilio Esbardo

Passando ad altri argomenti: mi ha coinvolto personalmente la presentazione del libro autobiografico “Umbruch” di Gerhard Stadelmaier, perché racconta le sue esperienze di giornalista, durante il periodo d’oro dei media, quando era ancora proficuo intraprendere questo mestiere e al contempo era molto divertente. Stadelmaier ha sintetizzato la sua professione con questa frase: “i giornalisti sono dei fannulloni, che guadagnano soldi”. La sua carriera di critico teatrale l’aveva iniziata contro il parere della nonna che aveva esclamato: “ragazzo, non andare alla redazione del giornale!”. L’autore, nato il 1950 a Stoccarda, dopo aver compiuto gli studi in Germanista e Storia, ha iniziato un volontariato presso il quotidiano “Stuttgarter Zeitung”, terminando la carriera come redattore di “FAZ”, una delle testate più prestigiose tedesche ed europee. Interessante è anche il libro del 2010 “Parkett, Reihe 6, Mitte. Meine Theatergeschichte”, nel quale definisce il ruolo del critico teatrale.

La fiera del libro di Francoforte, la più famosa d’Europa, ha dedicato l’edizione 2016 all’Olanda. Al festival di letteratura ho seguito quattro scrittrici del Paese dei tulipani: Conny Palmen, Margriet De Moor, Niña Weijers e Bregje Hofstede.

Conny Palmen - foto: Emilio Esbardo

Conny Palmen - foto: Emilio Esbardo

Conny Palmen - foto: Emilio Esbardo

Conny Palmen, classe 1955, è la più conosciuta a livello internazionale. Le sue opere sono impregnate dalle tragedie che l’hanno colpita. Dopo il romanzo d’esordio “Die Gesetze” (1993), ha dato alle stampe “I.M.”, nel quale narra il suo rapporto con il giornalista Ischa Meijer, morto prematuramente. Nel 2013 pubblica “Logbuch eines unbarmherzigen Jahres”, nel quale confluiscono i suoi sentimenti e reazione, scaturiti dalla morte del suo secondo marito Hans von Mierlo, giornalista e politico. L’autrice, che attualmente vive ad Amsterdam, ha presentato il suo nuovo lavoro “Du sagst es”, nel quale elabora la storia d’amore tra Ted Hughes e Sylvia Plath, la quale, come tutti sanno, dopo essersi tolta la vita nel 1963, ha ottenuto un grande successo postumo da poetessa. Conny ha dichiarato, che dopo tante tragedie, non se la sente più di innamorarsi di un altro uomo.

La vita di Margriet De Moor è molto interessante. È cresciuta in una famiglia numerosa a Noordwijk, composta da 9 figli, tra cui 6 sorelle. Dopo aver fondato un salone letterario nel 1984 nei pressi di Amsterdam, è divenuta famosa a livello internazionale nel 1993 con il romanzo “Erst grau dann weiß dann blau”. Margriet è anche pianista e cantante, nel suo repertorio spiccano i nomi di Schöneberg, Satie e Debussy. La musica traspare anche nei suoi libri come ad esempio nel titolo del suo ultimo romanzo “Melodie d’amour” (“Melodia d’amore”), nel quale differenti storie d’amore s’intrecciano tra di loro. L’autrice ha ricevuto numerosi premi durante la sua carriera artistica.

Mi sono divertito moltissimo al dibattito con Niña Weijers e Bregje Hofstede, le quali, in una maniera molto simpatica e divertente, hanno posato per me al termine della serata. Le due scrittrici olandesi, ancora agli inizi della loro carriera, stanno ottenendo un maggior riconoscimento in Germania che nella loro patria. Non c’è da meravigliarsi, perché entrambe hanno dei legami con la letteratura e la cultura tedesca.

Bregje Hofstede e Niña Weijers - foto: Emilio Esbardo

Niña Weijers ha dichiarato di aver scritto gran parte di “Die Konsequenzen”, un ritratto della scena artistica olandese, a Berlino e precisamente nel quartiere di Friedrichshain, nei cui pressi vi era un antiquario, che frequentava spesso. Berlino, grazie ai suoi ampi spazi e ai divertimenti e al contempo alle zone silenziose, è una buona città dove potersi concentrare nella scrittura. Il suo romanzo è autobiografico, tratta il tema dell’arte, nel cui ambiente circolano molti soldi. Altri temi trattati sono i rapporti amorosi e sessuali.

Anche Bregje Hofstede ha un forte legame con Berlino, dove ha concluso il suo master sulla Storia dell’Arte. Classe 1988, i suoi racconti brevi e suoi saggi vengono pubblicati dalla rivista letteraria “Hollands Maandblad”. Hofstede ha presentato il suo romanzo “Der Himmel über Paris”, che narra come la vita di Olivier, professore di Storia dell’Arte presso la Sorbona, venga messa sottosopra quando incontra la studentessa ospite Sofie.

Bregje Hofstede - foto: Emilio Esbardo

Termino questo mio saggio sul bel festival di letteratura con un’altra giovane scrittrice, Sharon Dodua Otoo, di origini britanniche, che si è fatta largo nel panorama letterario tedesco, aggiudicandosi, nel 2016, il Ingeborg-Bachmann-Preis, il più prestigioso premio austriaco.

Il riconoscimento l’è stato assegnato, per il suo racconto “Herr Gröttrup setzt sich hin”, attraverso il quale descrive, satiricamente, la quotidianità dei tedeschi, molto meccanica:

Helmut Gröttrup, achtundsiebzig Jahre alt, einundneunzig Kilogramm, ein Meter dreiundachtzig, war deutscher Ingenieur (Raketenspezialist, seit neun Jahren pensioniert), Erfinder und Schach-Genie. Die wochenendlichen Radtouren musste er bedauerlicherweise vor zwei Jahren sein lassen, weil er es mit dem Knie hatte. Inzwischen genoss er seinen neuen Status als regelmäßiger Sonntagsfahrer. Gleich  nach der Kirche kutschierte er gerne, samt Frau und Wackeldackel, stundenlang die Hauptstraßen entlang.

Helmut Gröttrup, settantotto anni, novantuno kg, un metro e ottanta-tre, è ingegnere tedesco (specialista di razzi, da nove anni in pensione), inventore e genio di scacchi. Da due anni, purtroppo, ha dovuto abbandonare, i tour del fine settimana con la bicicletta, per dei problemi al ginocchio. Nel frattempo gioiva del suo nuovo stato di guidatore della domenica. Subito dopo la chiesa, conduceva, volentieri e per ore, una carrozza, dotata di moglie e cagnolini di peluche con testa oscillante, lungo la strada principale.

-TRADUZIONE LIBERA DELL’AUTORE DELL’ARTICOLO-

Sharon Dodua Otoo - foto: Emilio Esbardo

La parte centrale del racconto è il rituale della colazione di Helmut Gröttrup e sua moglie Ehefrau Irmgard. In una maniera surreale, un uovo si rifiuta di divenire duro e tedesco e racconta di essere stato, nelle sue esistenze precedenti, un rossetto e un terremoto.

Il testo, che a un certo punto, sembrava condurre ad una banale domanda come si prepara un uovo perfetto per una colazione perfetta, inizia a porre al centro questioni profonde, portando il lettore a farsi domandi esistenziali, come sul tema della reincarnazione. Come ha messo ben in evidenza la critica letteraria Hildegard Keller, membro della giuria del Premio Ingeborg Bachmann, l’uovo rappresenta la metafora di un “Io, che si rifiuta, di lasciarsi intrappolare in schemi/definizioni ben definiti”:

Seine über die Jahre im Wesentlichen gleich gebliebene Morgenroutine würde heute bald mit Beginn des gemeinsamen Frühstücks – genauer gesagt, mit dem Essen des Eis – enden. Normalerweise war sie, Frau Gröttrup, die Chefin der Küche, und seine Aufgaben waren es, die Post hereinzuholen, die Außentemperatur zu kontrollieren und die Schuhe zu putzen (…) Frau Gröttrup reagierte zunächst nicht. Irritiert sah Herr Gröttrup noch einmal herunter zum Ei. Es war tatsächlich immer noch weich. Dabei hat er doch alle Vorschriften … ähh … Schritte eingehalten (…)

La sua routine mattiniera, sostanzialmente invariata negli anni, sarebbe terminata oggi velocemente con l’inizio della colazione comune – o meglio detto, con l’uovo. Di norma la signora Gröttrup, era il capo della cucina, i suoi compiti erano di controllare la posta, la temperatura esterna e di pulire le scarpe (…) La signora Gröttrup, all’inizio, non mostrò nessuna reazione. Il signor Gröttrup, irritato, guardò nuovamente in giù l’uovo. Effettivamente era ancora morbido. Eppure lui si era attenuto a tutti i regolamenti… ehm… ai passi prestabiliti…

-TRADUZIONE LIBERA DELL’AUTORE DELL’ARTICOLO-

Sharon Dodua Otoo è nata il 1972 a Londra. Oltre alla sua attività di scrittrice e pubblicista, è un’attivista impegnata nell’associazione “Initiative Schwarze Menschen in Deutschland” (Iniziativa per le persone di colore in Germania). Dopo essersi laureata in Tedesco e Direzione aziendale presso la Royal Holloway College di Londra, si è trasferita nel 2006 a Berlino, dove tutt’ora lavora e vive con i suoi quattro figli.

Il nuovo appuntamento con il Festival di Letteratura internazionale è, come sempre, a settembre dell’anno prossimo.

L'artista Zora Volantes durante la sua performance d'apertura del festival intitolata "Im Reich der Worte" (Nel regno delle parole) - foto: Emilio Esbardo

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