Ingiustizie e speranze del mondo nel Jazzfest Berlin 2015

Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Il programma 2015 del festival presenta artisti di differenti generazioni e 30 nazioni, uniti da un unico fattore in comune: artisticamente sono tutti in perenne mutazione. Essi sono la testimonianza, che il jazz, fondamentalmente non è uno stile, e neanche una serie di stili disparati, piuttosto un atteggiamento – uno “spirito”…
(Dalla prefazione al Jazzfest Berlin di Richard Williams e Thomas Oberender)

Come ogni anno il festival di jazz berlinese, uno dei più rinomati a livello internazionale, ha registrato una grande affluenza di pubblico. In quattro giorni, dal 5 all’8 novembre, sono stati venduti più di 6000 biglietti, registrando il pieno assoluto. 

I concerti si sono tenuti nella sede dei Berliner Festspiele, nell’Accademia delle Belle Arti, nel club A-Trane e nella chiesa Kaiser-Wilhelm-Gedächtnis, dove si è esibito il gruppo “The Necks”. 

Questa è stata la prima edizione da direttore artistico di Richard Williams.

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Charles Lloyd - foto: Emilio Esbardo

Al centro del Festival vi sono stati stili, culture ed espressioni totalmente differenti, uniti tra loro dal caratteristico suono del jazz: un suono che si basa sull’improvvisazione, sull’imprevedibilità, che sorprende costantemente l’ascoltatore; un suono con un proprio singolare linguaggio, in costante mutazione e sviluppo, come risulta dalla descrizione ufficiale del programma:

Il programma di quest’anno deve riflettere il continuo mutamento di una musica che persiste da generazione in generazione e i cui interpreti hanno in comune la voglia di svilupparsi ulteriormente…

Il nuovo direttore artistico Richard Williams ha dichiarato: “sono molto soddisfatto di come il pubblico ha reagito attivamente e generosamente alla varietà musicale, che ho voluto che fosse il segno distintivo di questo festival. Volevo dare agli spettatori forti contrasti, volevo mettergli delle idee in testa…”.

I musicisti hanno rispecchiato le differenti culture e linguaggi jazzisti della loro regione di provenienza come ad esempio il francese Vincent Peirani, l’irlandese Keith Tippett, il sudafricano Louis Moholo, l’italiano Giovanni Guidi, il portoricano Miguel Zenon, l’armeno Tigran Hamassyan, etc. 

Un sunto di diverse nazionalità è stato l’ensemble Diwan der Kontinente, formato da 22 musicisti di differenti Paesi, fondato dalla cantante Cymin Samawatie e dal batterista Ketan Bhatti. Il loro è stato un concerto importante perché ha lanciato il messaggio di tolleranza e comprensione tra persone di differenti nazionalità e religioni, uniti dall’amore per la musica. Un messaggio rilevante, in questo periodo così difficile per l’umanità. Il concerto si è svolto domenica 8 novembre nella sala principale dei Berliner Festspiele.  Il pubblico si è trovato d’accordo con le parole di pace espresse da Cymin Samawatie durante il discorso d’introduzione e naturalmente ha apprezzato anche l’eccellente esibizione.

Concerto Diwan der Kontinente - foto: Emilio Esbardo

Concerto Diwan der Kontinente - foto: Emilio Esbardo

 

Concerto Diwan der Kontinente - foto: Emilio Esbardo

Concerto Diwan der Kontinente - foto: Emilio Esbardo

Come affermato a inizio articolo, il jazz è un genere musicale in costante evoluzione; vi sono però dei tratti immutabili, che persistono sin dai suoi albori: sin dalla sua nascita ha descritto il vissuto della popolazione di colore degli Stati Uniti. I musicisti di allora trasportavano e quelli di oggi trasportano tutt’ora nei loro brani il loro vissuto quotidiano, i loro stati d’animo, le ansie, le gioie, i dolori e la ribellione ai torti subiti, alle ingiustizie sociali e la voglia di riscatto…

Interessante a tal proposito è l’articolo “Dalla colonna sonora di un movimento” di John Murph, pubblicato nella rivista dei Berliner Festspiele. All’inizio, l’autore cita il discorso d’inaugurazione del primo Jazzfest Berlin, avvenuto nel 1964, di Martin Luther King, nel quale il pastore evidenzia l’importanza del jazz contro le ingiustizie sociali e contro il razzismo negli Stati Uniti e invita gli spettatori, non solo a gioire delle esibizioni di Miles Davis, Coleman Hawkins, George Russell e Rosetta Tharpe, ma di considerarli come esseri umani, come delle persone.

John Murph, poi descrive il ruolo fondamentale giocato dal jazz durante i movimenti di protesta civile avvenuti tra la metà degli anni cinquanta fino alla fine degli anni sessanta, citando grandi artisti del calibro di Max Roach, Nina Simone, Billy Taylor, Archie Shepp, Charles Mingus e Sonny Rollins, che hanno composto brani politicamente e sociologicamente impegnati, come ad esempio “Malcolm, Malcolm, Semper Malcolm” e “I wish I knew how it would feel to be free” (“Mi piacerebbe sapere cosa si prova ed essere liberi”). 

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Cécile McLorin Salvant - foto: Emilio Esbardo

Nel 2015, nonostante l’elezione a Presidente di Barack Obama, una nuova forte ondata di razzismo è riesplosa negli Stati Uniti. I musicisti jazz, come da tradizione, hanno espresso attraverso la loro musica, gli ultimi dolorosi eventi, sostenendo il movimento di protesta #BlackLivesMatter.

Tra questi, l’autore dell’articolo, cita Robert Glasper, Matana Roberts, Ambrose Akinmusire, Terence Blanchard e Christian Scott, che l’anno scorso aveva partecipato ed aveva tenuto uno dei concerti più apprezzati al Jazzfest.

Il movimento #BlackLivesMatter era stato fondato da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi per protestare contro la scarcerazione, nel 2013, di George  Zimmerman, che aveva sparato contro il disarmato diciassettenne afroamericano Trayvon Martin. L’organizzazione ha acquistato sempre più rilievo internazionale con l’aumento esponenziale della violenza contro la gente di colore. Da ricordare sono la sparatoria di Darren Wilson contro il diciottenne Michael Brown, anche lui disarmato. Come nella maggioranza dei casi, anche in questa circostanza il poliziotto non è stato condannato.

Gli spiacevoli ed assurdi episodi di razzismo odierni, che trovano eco nelle composizioni jazz contengono lo stesso messaggio finale dei #BlackLivesMatter:  “Noi esistiamo”, “La vita dei neri ha un valore”. 

L’autore dell’articolo “Dalla colonna sonora di un movimento” John Murph cita a tal proposito due composizioni di Akinmusire: “My Name is Oscar” e “Rollcall for Those Absent”.

In “My Name is Oscar” la batteria rievoca i suoni delle sparatorie e degli attacchi feroci, mentre Akinmusire cita frasi come “Non sparare” (“Dont’t shoot”), “Siamo uguali” (“We are the same”) e “Io sono te” (“I am you”).

In “Roll Call for Those Absent”, Akinmusire e Sam Harris riproducono la voce innocente della ragazza Muna Blacke con prolungati e strazianti suoni melanconici della tastiera. 

Altri esempi citati sono “Breathless” (“Senza fiato”) del trombettista Terence Blanchard e “I can’t breath” (“Non riesco a respirare”) del bassista Marcus Miller: i due titoli ricordano le parole pronunciate da Eric Garner, prima di rimare ucciso soffocato dalla morsa letale del poliziotto Daniel Pantaleo. 

Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Louis Moholo - foto: Emilio Esbardo

Il Jazzfest 2015 è stato inaugurato giovedì 5 novembre 2015 da una grande formazione: la Splitter Orchester, composta da artisti di differenti provenienze con sede a Berlino, che hanno interpretato la composizione di George Lewis.

Il secondo concerto del festival è stato quello del quartetto di Cécile McLorin Salvant, composto da Fred Nardin (piano), Paul Sikivie (contrabbasso), Lawrence Leathers (batteria). 

La calda voce della giovane artista, nata il 1989 da madre francese e padre haitiano, ha conquistato immediatamente il pubblico, che l’ha omaggiata, più volte, con applausi scroscianti. Cécile si è messa immediatamente in evidenza in campo jazzistico a soli 20 anni, quando ha vinto il rinomato premio Thelonius Monk. Inoltre la sua incisione “WomanChild” (2013) ha ricevuto il grammy come miglior album vocale. Ultimamente ha dato alla luce “For One to Love”.

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Ambrose Akinmusire - foto: Emilio Esbardo

Sin dalla conferenza stampa, il direttore artistico Williams, ha voluto promuovere la figura delle donne nel jazz. Nella rivista ufficiale del festival vi è un articolo di Nadin Deventer al riguardo, intitolato “Concentrazione – inventiva … e poi il tema delle donne”, dove si mette in evidenza la discriminazione di genere:

Dalle ricerche risulta addirittura, che nel settore culturale complessivamente vi siano più donne che uomini attivi. Me le posizioni più importanti invece sono ancora ad appannaggio prevalentemente o esclusivamente degli uomini

Per capire ancor meglio la situazione attuale, Nadin Deventer cita l’affermazione del giornalista Steffen Greiner: “È vero che una donna gestisce gli affari di governo della Germania, ma il sassofono è ancora uno strumento per uomini”. 

I concerti di Cécile McLorin Salvant e di Laura Jurd al Jazzfest 2015 hanno dimostrato che le donne hanno gli stessi potenziali dei loro colleghi di genere maschile.

Concerto di Laura Jurd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Laura Jurd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Laura Jurd - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Laura Jurd - foto: Emilio Esbardo

Il quartetto Laura Jurd’s Dinosaur, composto da Conor Chaplin (basso elettrico), Corrie Dick (batteria), Elliot Galvin (piano), si è esibito sabato 7 novembre.

Laura Jurd, trombettista, ha vinto nel 2015 il premio jazz assegnato annualmente dal Parlamento inglese. Dopo aver suonato in differenti complessi, ha formato il suo quartetto, i cui musicisti sono considerati dalla critica tra i più promettenti della nuova generazione. La stessa Jurd ha soli 24 anni. Dopo aver avuto successo nei suoi tour in differenti città quali Varsavia o Dublino, il sabato nella “Seitebühne” dei Berliner Festspiele ha conquistato anche il pubblico della capitale tedesca.

Concerto di Vincent Peirani - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Vincent Peirani - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Vincent Peirani - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Vincent Peirani - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Vincent Peirani - foto: Emilio Esbardo

Un’esibizione del festival che mi ha impressionato tantissimo è stata quella del quintetto di  Vincent Peirani e Èmile Parisien, di giovedì 5 novembre. I due avevano già suonato l’anno scorso al Jazzfest, con il famoso batterista Daniel Humair. 

Il gruppo di Vincent Peirani (fisarmonica) e di Èmile Parisien (sassofono) è composto da Yoann Serra (batteria), Julien Herné (contrabbasso) e Tony Paeleman (Fender Rhodes). 

Il concerto intitolato “Living Being” – dall’omonimo album – è stato un enorme successo ed uno dei più apprezzati dal pubblico berlinese. 

Vincent Peirani, nato il 1980 a Nizza, ha iniziato a suonare la fisarmonica alla tenera età di undici anni ed ultimamente sta collezionando premi su premi. Nel 2015 ha ricevuto due riconoscimenti ECHO, uno come musicista solista e un altro come duo insieme a Èmile Parisien.

La giornata di Venerdì 7 novembre è iniziata con il concerto “The Nine Dances Of Patrick O’Gonogon” dell’ottetto di Keith Tippett, con la partecipazione speciale di sua moglie, la cantante inglese jazz rock Julie Tippetts, famosa negli anni ’60 e ’70, per la sua possente voce soul. 

Keith Tippett è divenuto un pianista importante negli anni ’60 nella fiorente scena jazzistica britannica. A donargli notorietà sono state soprattutto le collaborazioni con gruppi leggendari come i King Crimson, con i quali rimarrà legato dal 1970 al 1972. Nato nel 1947, figlio di un poliziotto, ha stretto un legame artistico importante con i musicisti sudafricani dei Blue Notes, scappati dal Sudafrica razziale, tra cui Louis Moholo, anche lui tra i partecipanti del JazzFest 2015. 

“The Nine Dances of Patrick O’Gonogon”, impregnata di temi folk irlandesi, è la sua ultima composizione. Il pubblico ha applaudito ripetutamente il suo virtuosismo e quello dei componenti della sua band composta da Fulvio Sigurta (tromba, Flicorno soprano), Sam Mayne (sassofono contralto, sassofono soprano, flauto), James Gardiner-Bateman (sassofono contralto), Kieran Mccloud e Richard Foote (trombone), Tom Mccredie (contrabbasso), Peter Fairclough (batteria). 

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Keith Tippett - foto: Emilio Esbardo

Dopo le accattivanti musiche irlandesi mi sono lasciato trasportare dai ritmi portoricani del quartetto del sassofonista Miguel Zenón, classe 1976, originario di San Juan, dove ha compiuto i suoi studi musicali, prima di inserirsi nella scena newyorkese, facilitata grazie alle borse di studio della Fondazione Guggenheim e della Fondazione MacArthur. 

Nella sua composizione, intitolata “Identities Are Changeable” (Le identità sono intercambiabili), si sono riflesse le condizioni di vita degli immigrati portoricani a New York. Gli altri componenti della sua band erano: Henry Cole (batteria), Hans Glawischnig (contrabbasso) e Louis Perdomo (piano).

Concerto di Miguel Zenón - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Miguel Zenón - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Miguel Zenón - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Miguel Zenón - foto: Emilio Esbardo

La serata di venerdì 6 novembre si è conclusa con il concerto di Giovanni Guidi. Mi sono recato con molta curiosità al suo concerto all’A-Trane, perché nella band di Giovanni vi fanno parte componenti come João Lobo, uno dei batteristi più richiesti della nuova scena jazz europea e come il bassista Thomas Moran, che ha collaborato con grandi del jazz, tra cui il trombettista polacco Tomasz Stańko. Giovanni Guidi, classe 1985, è originario di Foligno, cittadina non molto distante da Perugia, dove si svolge il festival estivo “Umbria Jazz”. 

Il terzo e il quarto giorno del festival sono stati i miei preferiti. Sono rimasto piacevolmente colpito dal mio primo concerto di sabato 8 novembre del trio Tigran Hamasyan.

Il suono del pianista Hamasyan, chiaramente influenzato dall’Armenia, la sua Patria d’origine, ha coinvolto e trasportato il pubblico, che ha applaudito costantemente. Eccellente performance anche degli altri due membri del gruppo: Arthur Hnatek (batteria) e Sam Minaie (contrabbasso).

Tigran Hamasyan è nato il 1987 a Gyumri, capoluogo della provincia di Shirak, e seconda città più popolosa dell’Armenia.  Tigran ha iniziato a suonare il piano di famiglia a soli tre anni e a soli 18 anni ha registrato il suo primo album “World Passion”.

Dopo aver iniziato sistematicamente a studiare musica a sei anni, a dieci anni si è trasferito in California con la sua famiglia. La sua Patria non l’ha mai dimenticata, l’ha portata dentro di sé e nella sua musica, che s’ispira anche alle opere del poeta connazionale Petros Duryan. Musicalmente è stato influenzato dai compositori armeni Arno Babajanian e Avet Terterian.

Il jazz di Hamasyan non è un’artificiosa imitazione della musica armena, ma un genuino amore verso la sua terra. La sua autenticità ha entusiasmato la gente presente in sala.

Hamasyan ha ricevuto numerosi premi: i più importanti sono il “Thelonious Monk Institute of Jazz” nel 2006 e il “Vilcek Prize for Creative Promise in Contemporary Music” nel 2013, istituito dalla Fondazione Vilcek, con lo scopo di rendere consapevole la popolazione degli Stati Uniti del contributo degli immigrati nel campo della scienza, delle arti e della cultura in USA.

Il direttore del festival Richard Williams mentre introduce il concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Il direttore del festival Richard Williams mentre introduce il concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Concerto di Tigran Hamasyan - foto: Emilio Esbardo

Dopo il trio di Hamasyan, si è svolta l’esibizione di Charles Lloyd, che non ha deluso le grandi aspettative. Con lui vi erano Gerald Clayton (piano), Joe Sanders (contrabbasso), Eric Harland (batteria), Socratis Sinopoulos (lira) e Miklós Lukács (cimbalom). 

Nato il 1938 a Memphis nel Tennessee, è diventato famoso principalmente come suonatore di flauto e sassofono tenore e grazie alla composizione “Forest Flower”. Fa parte della vecchia generazioni di jazzisti: è cresciuto musicalmente insieme a personalità quali B. B. King, Keith Jarrett, Jack DeJohnette. Nonostante l’età, sul palco, ha suonato per un’ora, senza pausa, senza cedimenti, un eccellente pezzo introspettivo autobiografico. “Wild Man Dance”, questo il titolo, è un sunto della sua carriera di successo, che non è destinata a cessare, vista la grande forma fisica dimostrata durante il suo concerto berlinese.

Per rilevanza storica, una delle esibizioni che ha attratto maggiormente la mia attenzione è stato il concerto, tenutosi domenica pomeriggio presso l’Accademia delle Belle Arti, intitolato “New Designs on Bowie’s Berlin” dei Dylan Howe’s Subterraneans, gruppo composto da:  Dylan Howe (batteria), Dave Whitford (contrabbasso), Ross Stanley (piano), Steve Lodder (sintetizzatore) e James Allsopp (sassofono tenore). 

Arricchito da proiezioni fotografiche d’epoca, Dylan Howe ha arrangiato pezzi musicali di David Bowie, che aveva composto durante la sua permanenza a Berlino ovest tra il 1976 e il 1978, nel quartiere di Schöneberg, precisamente all’indirizzo Hauptstraße 155. Il suo appartamento è oggi un luogo visitato da molti turisti. 

Bowie si era trasferito a Berlino per disintossicarsi e perché non sopportava gli aspetti negativi della notorietà. La città divisa in due dal Muro gli garantiva quell’anonimità che desiderava tanto. Lontano dalla luce dei riflettori ha dato vita a tre album “Low”, “Heroes” e  “Lodger” che rispecchiano il carattere inquietante e depressivo della Berlino di allora, dove si percepiva la tensione provocata dalla Guerra Fredda. In città regnava l’anarchismo, moltissimi giovani vi si trasferirono per evitare il servizio militare, non obbligatorio per chi risiedeva a Berlino. 

Senza fan che gli saltavano addosso, Bowie ha potuto vivere indisturbato tra i ritrovi dei transessuali, i club e i ristoranti più rinomati dell’epoca, i cui nomi sono rimasti tutt’oggi celebri: ad esempio Paris Bar e la discoteca Dschungel.

I brani di David Bowie reinterpretati dai Dylan Howe’s Subterraneans (“Neuköln”, “Moss Garden”, “Warszawa”) sono stati registrati negli “Hansa Tonstudios” nell’edificio in via Köthener Straße, costruito nel 1913 e adiacente al Muro.

La sera di Domenica 8, nella sala principale dei Berliner Festspiele vi è stato il gran finale. Dapprima con Louis Moholo Quartet e infine con Ambrose Akinmusire Quartet.

Akademie der Künste - concerto dei Dylan Howe’s Subterraneans - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Dylan Howe’s Subterraneans - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Dylan Howe’s Subterraneans - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Dylan Howe’s Subterraneans - foto: Emilio Esbardo

Sono rimasto emozionato dal concerto di Louis Moholo, che ha comunicato in modo eccellente al pubblico, dapprima il suo straziante dolore a causa dell’esilio a Londra ed infine la gioia del rimpatrio in Sudafrica al termine dell’Apartheid. Nel suo volto vi erano stampate le emozioni, che riviveva mentre suonava.

Insieme a lui si sono esibiti John Edwards (contrabbasso), Alexander Hawkins (piano – considerato dalla critica come la nuova star della scena jazz britannica) e Jason Yarde (sassofono).

Louis Moholo è l’unico componente ancora in vita del gruppo sudafricano Blue Notes di Chris McGregors, costretti a fuggire in Inghilterra nel 1964 a causa dell’Apartheid.

Che il jazz possa essere una forma di protesta e di affermazione di persone e culture oppresse; una maniera per narrare i torti subiti, le ingiustizie sociali ma anche espressione del desiderio di riscatto a livello internazionale, non esclusivamente ad appannaggio degli afroamericani, che lo hanno “inventato”, lo si può delineare proprio attraverso la biografia di Louis Moholo.

Nell’articolo “Come il jazz sudafricano è sopravvissuto nella giungla della musica jazz europea” di Richard Williams, viene evidenziata la marginalità del jazz europeo fino circa alla metà degli anni sessanta, che si limitava ad imitare i musicisti americani (eccezioni sono stati Django Reinhard e Stéphane Grappelli).

I musicisti europei iniziarono a comprendere che l’estetica del jazz non dovesse essere determinata solo dai compositori americani quando l’allora gruppo “Blue Notes”, a cui apparteneva anche Moholo, si è trasferito a Londra fuggendo dal Sudafrica. I Blue Notes erano stati fondati da Nikele “Nick” Moyake. Essi avevano arricchito il jazz americano con “l’aroma” africano, ossia con suoni di musica da strada melodica ed allegra. Coloro che si recarono ai loro concerti londinesi rimasero sconvolti al solo pensiero che artisti sudafricani potessero suonare jazz. I Blue Notes, a causa di difficoltà burocratiche, dovute al loro stato di fuggitivi, riuscirono ad esibirsi in Gran Bretagna fino intorno al 1966. Lentamente i componenti del gruppo si sono sciolti, prendendo ognuno una strada differente.

Essi hanno mostrato un nuovo approccio al jazz ai musicisti europei, che hanno smesso di imitare i loro colleghi americani ed hanno iniziato a delineare un jazz di matrice europea.

L’unico superstite dei Blue Notes è Maholo. Gli altri sono tutti deceduti.

Sede dei Berliner Festspiele durante il Jazzfest 2015 - foto: Emilio Esbardo

Sede dei Berliner Festspiele durante il Jazzfest 2015 - foto: Emilio Esbardo

Sede dei Berliner Festspiele durante il Jazzfest 2015 - foto: Emilio Esbardo

Sede dei Berliner Festspiele durante il Jazzfest 2015 - foto: Emilio Esbardo

Sede dei Berliner Festspiele durante il Jazzfest 2015 - foto: Emilio Esbardo

L’ultima esibizione del festival è stata quella del quartetto di Ambrose Akinmusire, che viene così descritto nell’opuscolo d’introduzione al suo concerto: 

“Trombettisti come Louis Armstrong, Don Cherry ed altri hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del jazz. Secondo il parere di molti esperti (…) Ambrose Akinmusire è il prossimo rappresentante di questa illustre lista”. 

Insieme al quartetto composto da Justin Brown (batteria), Sam Harris (contrabbasso), Harish Raghavan (piano) si è esibito anche Theo Bleckmann, cantante tedesco trasferitosi a New York nel 1989  all’età di 23 anni.

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

Concerto dei Splitter Orchester - foto: Emilio Esbardo

La prossima edizione di JazzFest Berlin si terrà dal 3 al 6 novembre 2016.

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