di Paolo Tacchini
…Gli uomini e le donne come talpe cieche/ le costole continuano a intrecciare/
desideri muti travolgono le loro vite/ sulla faccia della terra bisognosi/
e continuano a lasciarsi ciechi storpi e soli/ sulla nuda nuda terra a cercare/
sulla nera nera terra a cercare/ Sulla faccia della terra a cercar!
Vinicio Capossela è nato ad Hannover, come lui stesso vantava dondolando qualche sera fa dal palco dell’Astra di Berlino, salvo poi ammettere, col suo tono reticente da bimbo nella vigna, che ci è solo nato di passaggio, non conosce la lingua. Dalle sue canzoni uno si aspetterebbe un profluvio verbale alla Bergonzoni non appena apra bocca. Invece biascica poco meno di Jannacci, ma tentenna di più. Sembra sempre timido, brillo e impacciato Capossela, probabilmente è tutti e tre, sembra formare i pensieri col pongo, e poi invece non sbaglia una parola e descrive interi mondi.
Non conosce la lingua, unfortunately, così dice. E poi invece ne evoca uno dei riflessi più caldi, nel senso buono, e più brucianti, nel senso di ferita aperta, il concetto di Heimat.
Heimat: il posto che ognuno di noi sente come casa. Un concetto spazio-sentimentale, astratto e intimo che ricorda il Karass di Kurt Vonnegut, cioè l’imprevedibile costellazione di persone che disegna la nostra vita. Heimat a livello ampio, così parla Vinicio, significa anche un paese che accetta di essere casa per chi ha perso una casa. È una bella cosa, così pensa Capossela.
Commuove ancora di più detto da uno che ha il ballo di San Vito e non gli passa, che fermo non sa stare in nessun posto, e non troviamo mai dove lo avevamo lasciato.
Se cerchiamo punti fissi nel suo fantasmagorico linguaggio troviamo la parola Terra, come nelle all’inizio. Fissi per dire, perché la terra di Vinicio è ancor più reale eppure più magica di quella che favoleggiavano i nostri superecologisti, Celentano e Battisti. La terra di Vinicio trema per le danze, per le bombe, e poi trema mentre dormiamo, si gonfia, sanguina, ci erutta, ci evacua, ci sfugge sotto i piedi, ci osserva e ci inghiotte…
(vino bancarelle terra arsa e rossa/ terra di sud, terra di sud, terra di confine/ terra di dove finisce la terra) (corre il soldato/ corre la strada sulla terra bruciata) (nemici dei dottori/ sputan sulla terra dove andranno sotto terra)(per i giardini tuoi fave di miele/i denti mordano la terra nera) (e sulla nuda nuda terra pregò…sulla nera nera terra restò…nella nera nera terra scavò
…solo sulla terra lo lascerò…)
Capossela, che alcuni critici vetrinisti collocano nel taschino di Paolo Conte, altri, ancora più incriccati nel sentito dire riducono a clone di Tom Waits, non ha la voce né la faccia magnifica di questi ingombranti maestri. Non ha l’eleganza di Conte né gli arrangiamenti vulcanici di Waits, tranne quando ne usa i musicisti, non ha i doni naturali di molti maestri a cui si prostra generoso, Celentano per dirne uno. Eppure il bimbo nella vigna ha spesso doppiato l’originalità e lo spessore di quanti che siano i suoi Elvis.
Capossela si muove su altrettanti registri musicali dei molti su cui Conte, Waits o persino Manu Chao hanno genialmente giocato. Boogie, Tango, Walzer, Chanson francaise, Punk, samba…
Ma è l’immaginario a cui Capossela attinge (o meglio da cui tracanna) che non trova facili paragoni, per ampiezza ed espressività.
Poteva continuare sullo stesso stile autorale e di qualità dei suoi primi album All’una e trentacinque circa e Modí, passando di bettola in osteria, la Francia, persino l’Italia, non gli avrebbero mai negato da bere, pur in seconda serata, tutti contenti di etichettare un continuatore di Conte e di Tenco. Nuovo campione di tropicaldrunk Jazz per Nightbar.
Ma Vinicio, che non lesina omaggi ai suoi maestri, appare impermeabile agli omaggi rivolti a lui. Sembra colto da fregola, miraggi o sirene gli intimano di proseguire, di cambiare ancora per essere sempre altrove e sempre più vicino sé stesso. Esce dai bar scavalcando le ubriacature tristi e scende verso le origini, a sud di sé.
È nato ad Hannover, cresciuto in Romagna e col sangue Irpino. E lui risale, in discesa, alle foci del sangue. Dove sembra sentirsi perfettamente a casa, Heimat. Anche lì, poteva restarci. Poteva crogiolarsi per decenni nello stile dello splendido Camera a sud, con pezzi come Guiró o Che coss’é l’amor, pur con la sua voce da bambino e corvaccio si era già sbracato comodo comodo nell’olimpo dei nostri giganti, risultando anche più gracchiante e introspettivo di Jannacci, più chansonnier di De André e filastroccante di Caparezza, vocalmente più espressionista di Dalla, più febbrile di Conte, più nottambulo di Caputo, più divertente di Carosone e Bongusto e Buscaglione, più selvaggio e libero di Rino Gaetano. E chissenefrega persino più romantico di Baglioni e Cocciante. Non è strano pensare che nessuno tra questi arieti abbia espugnato con tanta facilità sia la gioia che il dolore, e tutto ciò che vi sta in mezzo, crudeltà, bellezza, follia. E come solo pochi tra loro non ha scambiato il successo per un Heimat.
Poteva sedersi sullo stile magnifico e compiuto del Ballo di San Vito, dove la girandola visionaria, sempre trattenuta da un magistrale uso espressionista del linguaggio e degli arrangiamenti, si allarga e sprofonda nei bassifondi, con il Tanco del Murazzo, malavitoso, struggente, con L’accolita dei rancorosi, sparagnini con la prole, spendaccioni con le troie. Poteva sedersi e il mondo gli avrebbe sempre portato da bere. Ma di nuovo, sfuggente e curioso come un polpo, ha voluto inabissarsi altrove, verso un altro di quei suoi posti che son lontani solo prima d’arrivare.
Ecco Canzoni a Manovella. Bel posto, i critici lo esaltano come suo miglior prodotto, sperando in realtà di inchiodarlo lì, avendo loro un numero finito di etichette, così da poter iniziare a esaltare se stessi per averlo sempre supportato. E lui poteva restarci tranquillo, su quest’album, che rende sempre più difficile capire dove sia nato e in che epoca, tra piani abbandonati, Lune immense e palombari.
Ma lui cambia altri vestiti e lingue, spesso senza levarsi gli altri, mischiando maschere e lingue più di Manu Chao. A differenza di quest’ultimo, il senso commerciale di Vinicio ha dell’incosciente. Un romantico regala ad una dolce ragazza l’album Ovunque Proteggi, per la struggente devozione del pezzo omonimo, e si trova ad ascoltare Al colosseo-passione della carne, che a mala pena può dirsi una canzone, nei toni sanguinari ed esaltati che descrivono ogni macello, quello antico e quello eterno.
È un conclamato omaggio a In the colosseum di Waits, ma ascoltatele entrambe per capire che l’omaggiante usa l’omaggiato come un trampolino per un tuffo più profondo nel furore carnale della storia umana. Poi la dolce ragazza precipita ancora più a fondo, rotola il masso rotola in basso, fino all’epica, risalendo i fiumi delle credenze: Brucia Troia, che il bimbo nella vigna rivela candido, sperava diventasse una hit nelle radio dedicata da cuori infranti ad ex fidanzate, musicalmente attinge ancora alla originalità espressiva, più cavernicola che digitale, di Waits, ma è ancora nei testi che si distanzia da ogni maestro.
Compone più strampalato di Dario Fo, ma più preciso di Conte, penetra subito sottopelle rivelando la sua straordinaria capacità di trasfigurarsi nell’essere umano prima che in altro, con l’assenza di giudizio, ma non di passione, che cattura l’essenza delle cose, da dentro. Il guscio si rompe da dentro e lui sembra sempre rinascere dentro i vestiti che porta. Con la stessa intensità racconta la Russia technomafiosa, le fiabe orientali e quelle degli abissi e le nere vite d’angiporto, la magia dei circhi e il Santo Graal dei balenieri, della Bible Belt, delle preghiere e delle guerre.
Prende l’episodio di Gesù che resuscita trasformandolo in un’eresia manga trash di disarmante candore. Lo descrive come un uomo confuso, ma se il padre eterno lo aveva abbandonato/ ora i paesani se l’hanno accompagnato/ che grande festa portarselo a mangiare, che non sa dove andare ma ha raggi sulla schiena e irradia gió gió-ia!
Sembrano testi effetto di lsd o di una foto di Lachappelle, ma basta vedere una festa religiosa al sud per capire di che parla, con quale magica precisione trasfigura la scena e ci si tuffa, in quel ridicolo, con vera umana gioia. Con amore.
La sua originalità è l’amore con cui tratta le cose antiche e sacre, ciò che letteralmente sono la simpatia e la compassione, e riesce a sdoganarle in questi periodi di memoria abortita.
La sua capacità dissacratoria ed erotica è quella del miglior Benigni (col quale si disputa il ruolo di groupie ai concerti di Tom Waits, di cui entrambi van pazzi) con la stessa amorevole, travolgente malizia, ma più disposto a soffrire davvero, a rinunciare alla battuta, molto più disposto a rischiare del Benigni nazionale.
Non ne esce mai il tono coltivato di Conte, di Battiato, geniali viaggiatori d’appartamento, come Salgari e Borges, tigri da salotto. Sebbene molti suoi pezzi provengano dichiaratamente proprio da viaggi di appartamento, cioè da libri, (molto Bukowski, Moby Dick, la Confraternita del chianti, Winesburg-Ohio, Jimmy Budd…) quello che ne esce sono avventure sonore e narrative capaci in due strofe di trapassare Fellini, Kusturica, Ciprì e Maresco, Tim Burton, Walt Disney, Wong Kar-wai e Sergio Leone, immergendosi ogni volta tutto nel nuovo sogno, con quella disposizione all’ubriacatura totale di chi si getta nudo nella botte.
E uscendone ogni volta un animale diverso, ma misto di quelli precedenti, senza rinnegare se stesso periodicamente, come in qualche modo fecero Battisti, Battiato o Miles Davis, sbattendo porte sul passato, anzi, per Capossela vengano tutti, vengano insieme. Ma la sua baraonda é una tempesta perfetta.
Come Gadda Capossela ha un linguaggio moschicida, cui si attacca tutto, ma il prodotto di questo Letteratissimo e sguaiato menestrello è sempre una canzone o per lo meno uno spettacolo, non solo un racconto, o un virtuosismo poetico. La sua cornucopia verbale può ridursi a strofe di disarmante semplicità, se lo richiede la composita magia che è una canzone.
Qualcuno chiese a Balzac dove avesse conosciuto tutte quelle persone. Si potrebbe chiedere a Capossela quando ha vissuto tutte quelle vite, tutti quei linguaggi.
Il concerto di Berlino non ha presentato effetti speciali, nessuna nuova spiazzante idea, non aveva Marc Ribot né chiglie di nave che svettavano sul pubblico. Un concerto di passaggio, una scelta dei suoi pezzi. Puro piacere, senza grandi sorprese. Nessuna sorpresa fino al momento dell’amore, quello del pubblico che lo richiama sul palco tre volte.
Come canta Conte: avrá piú di quarant’anni e certi applausi ormai son dovuti per amore.
Ecco, si, ci si spella ormai le mani volentieri per Vinicio. E allora lui si avvicina, ora si, si scioglie un po’, regala un inedito spingendosi a dichiarare, sempre più umano che artista, che è la miglior canzone del suo prossimo album. Cupa meraviglia, parla di treni che sfollano paesi in massa lasciandosi dietro case mute. Ci si sente Morricone ma soprattutto Capossela e ci si sente il mondo là fuori che ci entra come un treno di sfollati dalle orecchie. Se ne va sempre lontano per parlarci delle cose più vicine.
Posto che Capossela è un autore estremamente atipico, perché riesce a far andar giù per la garganza dei suoi bevitori il suo intenso, coltissimo postmoderno lirismo, come fosse vino del nonno, riesce a risultare pop suonando mascelle d’asino e cantando strofe come “barbari della Colchide, i vapori s’alzano nell’ombra…sono io il mio minotauro, divoro chi arriva fino a me…Zara degli dei, Zara degli eroi”, io lo vedo come uno dei migliori simboli del mio Heimat, che non proprio l’Italia, ovviamente, è un Heimat che parla molto italiano ma non solo, e che certe sere è una sala concerti di Berlino.
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