Intervista a René Urtreger: Parigi anni ’50, Miles Davis, Jazz e Ascensore per il patibolo

René Urtreger - Foto: Emilio Esbardo (scattata con la Rolleiflex e digitalizzata)

di Emilio Esbardo

Durante l’ultima edizione del rinomato Jazzfest Berlin, presso la Maison de France, si è tenuto il concerto del pianista René Urtreger in occasione del sessantesimo anniversario del celeberrimo film Ascensore per il patibolo e dell’altrettanto celeberrima colonna sonora del quintetto guidato da Miles Davis.


La band era formata da: Miles Davis (tromba), René Urtreger (pianoforte), Barney Wilen (sassofono tenore), Pierre Michelot (contrabbasso) e Kenny Clarke (batteria). René Urtreger, unico del gruppo ancora in vita, 83nne, è stato invitato per parlare anche dei suoi ricordi di quella leggendaria registrazione a termine della sua esibizione. Nato il 6 luglio 1934 a Parigi, è un’istituzione del mondo jazzistico francese. La scrittrice Agnès Desarthe ha pubblicato la sua biografia con il titolo Le Roi René ossia “Il re René”. Conosciuto come pianista bebop ha suonato con i più grandi jazzisti americani dell’epoca: il già citato Miles Davis, Lester Young, Chet Baker, Stan Getz, Dexter Gordon, Sonny Rollins, Lionel Hampton, etc. Nel 1955 ha pubblicato il suo primo album René Urtreger Plays Bud Powell, dedicandolo ad una figura chiave del bebop: al grande pianista Bud Powell come suggerisce il titolo. Nel 1961 Urtreger ha ricevuto il Prix Django Reinhardt, il più prestigioso riconoscimento jazz francese. Prima del suo concerto, mi ha concesso un’interessante intervista presso un hotel nel centro di Berlino. 

René Urtreger al piano - Foto: Emilio Esbardo (scattata con la Rolleiflex e digitalizzata)

Signor Urtreger, come descriverebbe a parole sue il Jazz?

Il jazz è un tipo di musica molto specifico. È come un idioma. Tutti i jazzisti – anche se suonano con stili differenti e appartengono a generazioni differenti, vecchi e giovani – utilizzano lo stesso linguaggio; hanno basi in comune nelle quali vi si riconoscono.  Con il tempo il modo di intendere il jazz è mutato moltissimo: originariamente vi era un’interazione tra i musicisti ed il pubblico. Si era uniti. Si suonava per gli amici. Oggigiorno la situazione è cambiata in modo radicale perché il jazz è progredito: tutti sono diventati dei virtuosi, delle persone dal carattere serioso. I concerti di jazz si svolgono come quelli di musica classica. Ad esempio, i pianisti suonano in ambienti confortevoli con un pubblico seduto in modo disciplinato, immerso nell’ascolto. Se qualcuno applaude al momento sbagliato, viene immediatamente zittito. Questo è ciò che io rimpiango: Quando ho iniziato la mia carriera, il mondo del jazz era come quello del pop. Gli ascoltatori erano parte dello spettacolo. Mi piaceva tantissimo quando le persone ballavano mentre suonavo. Sempre un paragone con la musica classica: quando si suona musica classica, si esegue una composizione di un altro. Nel jazz, invece, si suonano le note scritte e al contempo s’improvvisa. I musicisti rischiano, si mettono in gioco; si è al contempo interprete e compositore, ovvero si è un compositore istantaneo. Oggigiorno i giovani jazzisti tendono a suonare in modo irreprensibile senza il minimo rischio proprio alla maniera dei musicisti classici. Il jazz si suona con il cervello, il cuore e i testicoli. 

Com’era la Parigi degli anni ’50?

Ho avuto la fortuna di vivere nella Parigi degli anni ’50 da ventenne. È stata un’epoca eccitante e influenzata dallo stile di vita americano. Lusso, musica, cinema, auto, etc., entrarono di colpo a far parte dei nostri costumi. Il mio amore per il jazz è nato grazie ai miei cognati, che mi facevano ascoltare i loro dischi e mi portavano al cinema con loro. Quel jazz proveniente dagli Stati Uniti e i loro grandi artisti – Chet Baker, Miles Davis, Lester Young – mi sono entrati nel sangue. Essi erano il top. La stessa florida scena jazz parigina si sarebbe potuta sviluppare in tutte le capitali, in tutte le grandi città europee. Si sarebbe potuta sviluppare a Londra, ma lì vi erano i sindacati, che rendevano difficile l’esibizione dei musicisti americani: essi pretendevano in cambio  l’ingaggio di band britanniche le quali all’epoca non erano all’altezza di giganti come Duke Ellington o Louis Armstrong. Così Parigi è divenuta il centro di ritrovo non solo dei jazzisti americani ma di tutta Europa; Italia, Germania, Svezia, etc. È stato un periodo dorato per Parigi. Ricordo ancora alla fine degli anni ’50 quando si entrava nei club del quartiere di Saint-Germain-des-Prés ad ascoltare jam session improvvisate, con icone americane che si mescolavano ai musicisti europei. Io, al termine del servizio militare nel 1957, ho suonato spesso nel famoso locale Club Saint-Germain, situato sulla riva destra della Senna. Vi erano numerosi concerti in altrettanto numerosi locali come Pleyel e Alhambra, dove si potevano incontrare artisti del calibro di Ella Fitzgerald, Dizzy Gillespie, Stan Kenton. In quel periodo è stato inaugurato un nuovo posto chiamato Blue Note, che aveva come ospiti regolari Marlene Dietrich e Yves Montand. Nel 1959 l’editore Maurice Girodias ha inaugurato La Grande Séverine uno stabilimento con locali differenti al numero 7 di Rue Saint-Séverin: al primo piano vi era Le Blues-Bar, un locale di jazz gestito dall’attrice americana Mae Mercer, dove si sono esibiti grandissimi musicisti come Chet Baker. Così Parigi è divenuta la capitale del jazz. I grandi jazzisti americani si erano trasferiti nel vecchio continente, perché preferivano il nostro modo di vivere. Poi erano lusingati dal fatto che in Europa venivano accolti come delle vere e proprie star, dei geni, a differenza del loro Paese di origine. Si ritrovavano di fronte ad un pubblico eccitato e caloroso, che non provava disprezzo per gli uomini di colore e che non li discriminava come negli Stati Uniti.  Il jazz era stato ben recepito ed era entrato a far parte del vocabolario dei Paesi europei. Trascorrevamo delle serate spensierate e all’insegna del divertimento. Realmente un periodo interessante. 

La sequenza scritta da René Urtreger - Foto: Emilio Esbardo (scattata con la Rolleiflex e digitalizzata)

Un aneddoto divertente di questo periodo?

Ce ne sono tantissimi… Quando ho iniziato a suonare con delle vere e proprie icone come Miles Davis non mi lasciavo impressionare, perché sapevo già di chi si trattasse. Differente invece era la situazione quando incontravo dei grandissimi musicisti ancora sconosciuti. Una sera al Blue Note ci ha raggiunti Lionel Hampton con tre ragazzi della sua orchestra di cui non si sapeva nemmeno che esistessero. Apparivano talmente giovani da sembrare degli scolari. Io ero intento a suonare insieme a Jimmy Gourley, Kenny Clarke e a Jimmy Woode. Nella sala vi era una sola tromba. Il primo ci chiese se avesse potuto suonare. Kenny Clarke rispose: “naturalmente”. Appena iniziò ci guardammo esterrefatti. Il suo nome era Art Farmer. Poi fu il turno del secondo sconosciuto il cui nome era Quincy Jones ed infine il terzo: bum! Clifford Brown! Stavamo suonando con dei ragazzi che sarebbero divenuti a breve famosi. Siamo rimasti stupiti. Per noi è stato come uno shock, un brillante, magnifico shock!

Lei è considerato un pianista Bebop. Crede che vi sia un legame tra il Bebop e gli scrittori della Beat Generation?

Non credo che vi siano molti legami tra musica e letteratura. Naturalmente vi sono stati giovani artisti, creatori, poeti dello stesso periodo, ad esempio Jack Kerouac divenuto famoso per il suo libro “Sulla strada”. Forse ci potrebbero essere punti d’unione tra il jazz e la letteratura, ma non sono sufficientemente istruito per rilevarne alcuni. Il Bebop è un fenomeno nato alla fine degli anni ’30, che ha stravolto tutto, dall’armonia al ritmo, grazie a personalità come Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Essi soppiantarono lo Swing, che era durato fin troppo. Ogni tipo d’arte deve progredire. Alcune volte i cambiamenti non sono positivi ma si arriva sempre ad un punto che la rottura con il passato si rende necessaria ed è inevitabile. 

Lei ha suonato con Miles Davis, una leggenda del jazz. Che ricordi ha?   

A proposito di aneddoti: durante un concerto al locale Pleyel, Miles Davis notò una donna molto bella alla quale chiese immediatamente chi fosse. Lei rispose: “sono la sorella del pianista”, facendo segno verso di me. Iniziò così una relazione con mia sorella, di cui non si sa molto, perché lei non era famosa come Juliette Gréco, l’altra sua amante. Tra me e Davis vi è stata una profonda e sincera amicizia oltre alla fruttuosa collaborazione professionale, concretizzatasi in concerti e in dischi. Miles era uno dei miei eroi: una persona intelligente, brillante e calorosa. Musicalmente era in permanente evoluzione. Tra il 1949 ed il 1950 insieme al geniale pianista e compositore Gil Evans ha registrato Birth of Cool, che diventerà leggendario dopo il 1957, l’anno di pubblicazione. Continuando il suo periodo evolutivo nel 1959 darà vita a Kind of Blue, che personalmente è il disco che io mi porterei su un’isola deserta se dovessi fare una scelta. Kind of Blue è l’espressione di un jazz più astratto che si basa più su un colore che su una tonalità. Miles voleva diventare anche una star popolare ai livelli di Michael Jackson. Era un musicista fantastico e completo. Tale carriera era però difficilissima da raggiungere con un percorso incentrato esclusivamente sul jazz.

Copia del disco autografataoda René Urtreger - Foto: Emilio Esbardo (scattata con la Rolleiflex e digitalizzata)

Quali sono i suoi ricordi sulla realizzazione della colonna sonora del film Ascensore per il patibolo?

È stata un tipo di esperienza assolutamente nuova perché eravamo neofiti in campo cinematografico.  Il regista Louis Malle era quello che in Francia definiamo un “figlio di papà”: apparteneva ad una famiglia di nobili origini, che aveva fatto fortuna durante il periodo napoleonico con il commercio dello zucchero. Era però un grande artista, che ha girato film bellissimi. Noi musicisti ci siamo ritrovati una sera presso la Poste parisien ed abbiamo improvvisato sulle scene del film che venivano proiettate. Questo progetto mi ha portato la gloria. È un progetto importante, i cui ricordi, però, personalmente non sono tutti così belli, perché non vi è molto pianoforte ed io ho trascorso molta parte del tempo sulle scale.    

Share Button