Intervista ad Andrea Fusaro

Andrea Fusaro - Foto: Emilio Esbardo

di Emilio Esbardo

Andrea Fusaro, classe 1933, originario di Milano, si è trasferito nel lontano 1959 a Berlino, vivendo i momenti storici tra i più difficili della città a partire dalla costruzione del Muro. Ha lavorato per la Fiat e per lavoro si recava spesso nella DDR. Ha ricevuto numerosi premi tra cui l’Onorificenza al Merito della Repubblica Federale Tedesca e la Stella della Solidarietà italiana.


È stato, inoltre, delegato del C.O.N.I. a Berlino e a suo merito vi è lo sviluppo sportivo della comunità italiana nella metropoli. Anche per questo motivo gli è stata concessa l’onorificenza in bronzo della Federazione Calcio tedesca (giudice sportivo), la medaglia in oro della Federazione ciclistica italiana – Vice Presidente R.C.C e la Croce di bronzo al Merito Sportivo C.O.N.I. L’intervista ha una rilevanza storica, visto che sono pochissimi gli italiani che vivono da così tanto tempo a Berlino.

Signor Fusaro, si ricorda il suo primo giorno a Berlino? Perché ha deciso di venire in Germania?

Era domenica 27 dicembre 1959, quando sono arrivato alla stazione di Berlino. Sono giunto con la mia piccola valigetta, non di cartone, ma da turista, perché avevo qui una ragazza e volevo trascorrere con lei il San Silvestro. Questa ragazza, interessantissima e preparatissima, di sua iniziativa, mi aveva, però, già trovato una casa ed un lavoro. All’interno dell’autobus che ci stava conducendo a casa sua, mi ha detto: “lì in fondo c’è l’officina Fiat dove andrai a lavorare”. Io ho reagito, ridendo con gusto. Il 29 dicembre 1959 ho incontrato il mio primo principale a Berlino, il signor Ricci. La mia esperienza lavorativa è poi iniziata il 20 gennaio 1960 come meccanico delle automobili Fiat.

Alfons Hörmann della Federazione Sportiva e Olimpica Tedesca, Andrea Fusaro e il Ministro dell’Interno Thomas de Maizière - Foto privata di Andrea Fusaro

Lei ha vissuto, dunque, la costruzione del Muro…

Sì. Ogni domenica io mi recavo a Berlino est con i Marchi occidentali e, dalla stazione di Friedrichstraße chiamavo al telefono i miei genitori a Milano. Domenica 13 agosto 1961, aspettando il collegamento con Milano, notai che in città vi era una grande confusione. Verso le 13.30, rientrando attraverso la Porta di Brandeburgo, scorsi che vi era già il reticolato. La gente, terrorizzata, era già accorsa a vedere cosa stesse succedendo. Par farla breve, verso le 15.00 Berlino era stata divisa in due. Il motivo principale per cui hanno costruito il Muro è stato perché i migliori studenti ed ingegneri tedeschi, dopo essersi istruiti gratuitamente nelle università della DDR, fuggivano all’ovest, causando un grave danno economico e di immagine al Governo socialista. Persino nella nostra officina Fiat lavoravano due ragazzi, che a partire dal 13 agosto, non abbiamo mai più visto.

Lei ha conosciuto personalmente i due studenti italiani, Luigi e Mimmo, che hanno scavato il tunnel che passava sotto il Muro?

Sì, li ho conosciuti entrambi. Anche la moglie di Mimmo Sesta, Ellen, che ha partecipato all’azione. Mi ricordo che, ad un certo punto, non avevano più soldi per continuare e gli americani li hanno finanziati, in cambio dei diritti per il documentario che è stato girato a tal proposito. Da quel tunnel sono scappati parecchi ragazzi. Sfortunatamente, Domenico Sesta è morto. I due italiani erano studenti semplici, acqua e sapone. Hanno scavato il tunnel per amor di patria e, non per soldi, come hanno fatto in tanti.

Vari articoli di quotidiani su Andrea Fusaro nel corso degli anni - Collage: Emanuele Bellintani

Dopo un certo periodo, lei ha iniziato a lavorare anche in proprio?

Sì. In seguito ho aperto un’officina di riparazioni auto in cantina nel 1968, ma la polizia mi ha imposto di trovare i locali giusti. Avevo 8 operai. Il mio vecchio principale mi ha dato in gestione una concessionaria Fiat. Nel 1971, quando c’è stata la crisi della benzina, ho utilizzato la fantasia e l’ingegno degli italiani, per risolvere il problema. Mi sono detto: “perché non vai a gas?”. Così nel 1972 ho montato la mia prima auto a gas a Berlino, ottenendo un buon riscontro economico.

Ed è così che è iniziata la sua esperienza nella DDR…

Sì, perché ho iniziato a vendere i primi impianti a gas nelle DDR, dove partecipavo anche a fiere importanti come quelle di Lipsia. Da buon meccanico Fiat ho dimostrato ai miei colleghi tedeschi che una macchina può andare anche ad acqua. A tal proposito, vorrei raccontare un breve aneddoto: vi era una macchina di un cliente che non teneva il minimo, a cui ho tolto il filtro dell’aria, ho messo in moto il motore e con circa un litro di acqua ho fatto andare quest’acqua in carburazione, lavando l’interno il motore.  Dopodiché il motore andava liscio come l’olio. I miei colleghi della Fiat sono rimasti stupiti.

Vi erano altri italiani che lavoravano nella DDR?

Gli unici italiani che lavoravano nella DDR, eravamo io, che vendevo impianti a gas per automobili, Foti, che vendeva automobili Fiat e Monteverde, che vendeva la benzina. Durante questo periodo, non sono mai andato in una sala da ballo, in un ristorante, come facevano moltissimi italiani che si recavano la sera nella DDR e rientravano a Berlino ovest a mezzanotte per farsi la loro passeggiata o avventura con le ragazze. Io pensavo solo al mio lavoro e non mi sono messo mai nei guai. L’esperienza nella DDR per me è stata istruttiva. Le ditte italiane erano pochissime, ad esempio l’Eni. Vendere nella DDR non era facile. Gli affari si facevano con il 30-40% di compensazioni e molti non se lo potevano permettere. La Fiat aveva avuto un’offerta dalla DDR, che per pochi soldi voleva acquistare la 130. Agnelli ha rifiutato. Allora il Governo si è rivolto alla casa automobilistica svedese, la Volvo. Per questo Wandlitz, il quartiere berlinese a Pankow, dove abitavano i membri più importanti della Repubblica Democratica era stata denominata Volvograd: lì vi erano circa 40 Volvo.

Ha mai visitato l’Ambasciata italiana a Berlino est?

L’Ambasciata italiana a Berlino est era situata nella Unter den Linden, in un edificio al secondo piano sopra quella francese. Mi ci recavo spesso a prendere il caffè o semplicemente a chiacchierare. Quando, però, entravo nell’ufficio dell’Ambasciatore o del segretario commerciale, alzavamo il volume della radio, perché anche le pareti avevano orecchie indiscrete. Una volta, addirittura, hanno ucciso l’autista di una ditta di trasporti sul ponte che collegava la Germania orientale con quella occidentale.

Si ricorda come è iniziata la sua avventura lavorativa nella DDR?

Mi hanno interpellato dopo aver partecipato alla Fiera di Lipsia. Il Ministero dei Trasporti ha stipulato con me un contratto, che prevedeva la vendita degli impianti a gas direttamente con il Ministero. Contatti diretti con gli enti della DDR era vietato. Secondo gli accordi consegnavo regolarmente sette-otto impianti ogni sette-dieci giorni. Loro, dopo una settimana, mi pagavano puntualissimi. È stato un lavoro durissimo. 

L’hanno mai contattata per lavorare come spia?

Sì, mi hanno adescato con un’allettante offerta: con un telefax mi hanno ordinato di colpo 3000 impianti. Allora io ingenuamente ho chiesto alla segretaria del Ministero, che frequentavo spesso, il motivo di questa generosissima offerta e lei mi ha risposto: “Sai, tu dovresti passarci ogni tanto qualche informazione utile”. Io ho rifiutato la proposta, perché non volevo mettere a rischio la mia libertà individuale. Non volevo essere sotto il loro controllo. 

Che impatto le faceva la DDR, ogni volta che vi entrava?

Ero contento quando ne uscivo! Lì, vi era un’atmosfera cupa, pesante. Nessuno nella DDR, andava in giro, all’epoca, ridendo. Tutti avevano stampato sul viso una caratteristica espressione di tristezza. Si sentivano molto depressi. Gli ingegneri, con cui collaboravo per motivi di lavoro, si rallegravano quando io andavo a trovarli a casa e gli portavo la bottiglietta di whisky ma rimanevano sempre timorosi di essere scoperti dai loro vicini di casa o dai loro amici. Persino io, anche se nella DDR giravo con un permesso speciale e potevo entrare ed uscire quando volevo, mi sentivo sempre controllato. Molte volte mi pedinavano con la loro macchina. Io me ne accorgevo, però non ho mai avuto nessun problema perché ho sempre svolto il mio lavoro senza mai cacciarmi nei guai. 

Mi potrebbe descrivere la comunità degli italiani negli anni ’60 a Berlino?

La comunità italiana era sparpagliata. Eravamo, però, molto pochi. Dunque, si lavorava in buona armonia, ci si conosceva più o meno quasi tutti, per cui c’era molta amicizia tra di noi. La maggioranza era nella gastronomia.

Vi sono italiani che si sono fatti onore negli anni sessanta a Berlino?

Pochissimi. Tre o quattro gastronomi, che sono conosciuti ancora oggi. Mi vengono in mente i nomi di Francucci e Mannozzi.

Com’è cambiata la comunità italiana nel tempo?

Lentamente il numero degli italiani è aumentato e ci siamo sparpagliati nei vari quartieri della città, non si è formata una comunità riunita in una sola zona di Berlino. Sono giunti tantissimi altri professionisti e turisti. Si è ampliata soprattutto l’offerta nel campo della ristorazione. Abbiamo formato, così, il Ciao Italia, un’associazione della gastronomia italiana nel mondo. Mi ha colpito molto una frase del Presidente Scalfaro in visita a Berlino, che rivolgendosi hai ristoratori ha detto: “Voi siete i veri ambasciatori dell’Italia nel mondo”. Io credo che sia proprio così. Oggi c’è un nuovo massiccio afflusso di giovani italiani nella capitale tedesca. A loro consiglio di apprendere immediatamente la lingua per non rimanere isolati ai margini della società tedesca.

Com’è iniziata la sua avventura sportiva a Berlino?

Lo sport è stato ed è, per me, il mio primo hobby. I primi anni a Berlino giocavo a Rugby. Nel 1963, quando Don Luigi Fraccari mi ha proposto di organizzare eventi calcistici per la nostra comunità, ho formato la prima squadra di calcio italiana a Berlino, dal nome GIB. Poi ne sono nate altre, gestite per lo più dai proprietari di ristoranti. Per mettere fine ai numerosi litigi, ho deciso nel 1980 di creare un’unica squadra, che tutt’ora esiste e che si chiama Club Italia 80.

Dai suoi primi passi sportivi a Berlino, lei poi è divenuto rappresentante C.O.N.I. in città?

Sì, ero il coordinatore. All’inizio, il problema maggiore era trovare ragazzi italiani che facessero sport. Quando i primi tempi partecipavamo ai giochi della gioventù in Germania, eravamo battezzati la piccola cenerentola. Le comunità italiane delle altre città tedesche giungevano con uno o due bus. Noi eravamo al massimo 15-20 ragazzi. Aumentando la partecipazione, ho organizzato eventi di differenti discipline sportive. Durante la mia attività con il Coni ho conosciuto personalità del mondo dello sport quali, per fare solo alcuni esempi, Buffon, Baggio, Panetta, Pantani e Moser. Sono stato l’ultimo delegato C.O.N.I. in Germania.

Lei ha svolto anche altri lavori a Berlino?

Sì, terminato il capitolo da meccanico, ho iniziato a promuovere e a vendere la pasta fresca, anche se all’inizio non ne ero un intenditore, ho appreso strada facendo. Nelle maratone vendevo circa 20000 piatti di pasta ai maratoneti e alle loro famiglie, motivo per il quale mi hanno affibbiato il soprannome di re della pasta. Inoltre ho fatto esperienza anche nel settore del porcellanato. 

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