Intervista al Maestro Peretti

Pier Damiano Peretti - foto © Weinwurm

di Michela Buono

Ho avuto la fortuna di seguire dei corsi estivi di organo tenuti dal M° Pier Damiano Peretti. La sua preparazione ed eleganza nella prassi esecutiva mi hanno sempre molto colpita. Molto attento ai particolari è in grado di cogliere gli aspetti più nascosti di ogni composizione musicale. Trasferitosi all’estero nel 1996 ha riscosso fin da subito consensi unanimi di pubblico e critica. Organista, docente e compositore costituisce un esempio da seguire per chi volesse intraprendere la carriera musicale (www.pdperetti.com)


Maestro Peretti Lei si è diplomato a Vicenza, varie masterclasses l’hanno portata a studiare con L.F. Tagliavini, H. Vogel, J.C. Zehnder e molti altri. Dal rapporto con Wolfango Dalla Vecchia è nato il Suo interesse per la composizione. La svolta decisiva avviene nel 1996 con il Suo trasferimento a Vienna, dove studia organo con Tachezi e Radulescu. Quali differenze ha notato tra gli studi in Italia e quelli all’estero da un punto di vista dei programmi e della didattica?

Gli studi musicali italiani – oltre che l’apparato scolastico in generale – mi sembrano affetti da una “malattia” tipicamente latina: il centralismo. Fino a pochi anni fa non solo le nomine dei docenti, ma anche i programmi d’esame (detti, appunto, “ministeriali”) venivano dettati da Roma e si applicavano indifferentemente a tutti i conservatòri; il repertorio d’esame mai si spingeva al di là di tali prescrizioni, circoscritte ai soli Frescobaldi, Bach, Mendelssohn e Franck (integrati da Bossi e “i moderni”… anche se non si sa bene chi fossero!); tutto questo ha avuto effetti molto deleteri sulla preparazione degli organisti italiani. Nei paesi tedeschi – e non solo – ogni università è libera di formulare i propri programmi e di assumere i propri docenti; diventa così possibile focalizzare su determinati punti di forza anche locali, soprattutto nel caso di città dal grande passato musicale. Sono aspetti da non sottovalutare in un’epoca in cui la mobilità è pressoché illimitata, e chi si orienta verso una certa accademia lo fa contemplando un raggio di possibilità sempre più ampio.­­­­ Sul piano didattico, la differenza più sostanziale sta nel fatto che chi studia organo nei paesi tedeschi deve scegliere tra due indirizzi. Lo studio della Kirchenmusik prepara alla tradizionale professione del “musicista di chiesa”: suonare l’organo, improvvisare, dirigere coro e orchestra, perfino fare fundraising… L’altra opzione è il ramo concertistico, concentrato soprattutto sul repertorio organistico. Ma nel nostro strumento, a mio avviso, è difficile parlare di una vera “carriera” concertistica, almeno in Europa: all’attività solistica si affianca invariabilmente l’impegno didattico o il lavoro in una chiesa. I confini tra i due percorsi accademici sono quindi ben più labili di quanto non appaiano sulla carta. 

Dal 2001 al 2009 è stato professore d’organo presso la Hochschule fur Musik und Theater di Hannover; successivamente è stato nominato successore di Michael Radulescu all’Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna, la storica Hochschule. La Sua esperienza di insegnante in due università prestigiose Le ha permesso di accedere a due “mondi” molto simili, quello tedesco ed austriaco. Cosa Le hanno lasciato queste due esperienze da un punto di vista personale e di maturazione artistica?

Viste dall’esterno, queste due culture possono risultare simili – in realtà, non lo sono poi tanto. La Germania è una terra convintamente pluralista, aperta al multiculturalismo e molto attenta al presente; l’Austria, per storia e posizione geografica, è più rivolta alle proprie tradizioni e custodisce un grande passato, anche musicale. Vivere ed insegnare ad Hannover, nel cuore del continente, mi ha reso un po’ più “contemporaneo”, oltre che europeo; ma la cultura viennese è tanta e tale che venirne assimilati risulta inevitabile. A pochi passi da casa mia, nel solo quarto distretto, è vissuto Brahms, è morto Schubert e sono state eseguite per la prima volta le sinfonie di Beethoven: per un musicista vivere a Vienna è un po’ come aleggiare sopra il centro del mondo – la vista può mozzare il fiato, ma rende immediatamente consapevoli dell’esiguità del proprio lavoro…

Lei è vincitore di vari concorsi organistici italiani ed internazionali, oltre che di una borsa di studio che L’ha portata a studiare per un periodo ad Amburgo. Ritiene che i concorsi oggi siano ancora un “trampolino di lancio” per i giovani musicisti? Cosa è cambiato  rispetto agli anni ’90?

Più che luoghi di competizione, ho sempre visto nei concorsi occasioni di incontro, scambio, presa di coscienza. E palestre di tenacia e autodisciplina, qualità imprescindibili per chi, come il solista o il compositore, lavora spesso a progetti di lunga durata. In secondo luogo: sì, “trampolini di lancio”, nel senso che il destino va aiutato non nella passività dell’attesa, ma transitando per i crocevia giusti. Negli ultimi anni sono stato membro di svariate giurie internazionali, da Tokyo a Montreal, e credo di avere una buona visione d’insieme. Rispetto ai decenni passati sono sempre meno i concorsi specializzati in un repertorio specifico; è ormai comunemente accettato che un concertista si trovi a suo agio tanto nella musica barocca che in quella più recente, e anche i programmi accademici spingono in questa direzione. Oggi la vera sfida sta nella versatilità, che non vuol dire superficialità, perché non è di quantità che si sta parlando. Osserviamo il mondo musicale al di là dell’organo: scopriremo strumentisti ugualmente capaci sullo strumento storico o moderno, e giovani direttori come Pablo Heras-Casado che spaziano con disinvoltura da Monteverdi a Boulez. Perfino un mostro sacro della cosiddetta “musica antica” come Nikolaus Harnoncourt si è espresso contro la specializzazione in un solo repertorio…

Fin da giovane ha intrapreso la carriera concertistica suonando in vari Festival internazionali, dall’Europa all’Estremo Oriente, dal Nordamerica ad Israele. La crisi mondiale che stiamo vivendo ha influito sull’organizzazione di Festival e concerti nel mondo?

Indubbiamente: colleghi con qualche anno in più mi dicono che l’entità dei cachet in paesi come il Giappone o gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa, era ben altra. Ma il mio cruccio maggiore, limitandosi al nostro settore, è che l’organo ancora fatica ad integrarsi nella quotidianità delle sale da concerto, spesso gestite secondo logiche puramente commerciali: a relegarlo ai margini della vita musicale è il terrore del mancato “tutto esaurito”, con conseguente fuga nel mainstream. Nelle chiese, d’altro canto, i festival di livello sono sempre meno. Ad un’offerta in calo fa eco la presenza di giovani organisti sempre più numerosi, oltre che preparati; ciò porta ad un incremento della concorrenza e alla tendenza a pianificare le proprie scelte musicali secondo criteri non più artistici, ma “strategici”. Vent’anni fa, tutto sommato, l’atmosfera era un po’ più rilassata. 

Suonare sempre su strumenti diversi è senz’altro un’esperienza unica, c’è qualche strumento in particolare che ha suscitato in Lei un vivo interesse, ad esempio nella meccanica, nel suono…? 

È sempre molto difficile pronunciarsi, perché ogni organo meritevole di attenzione è un unicum strettamente connesso ad un repertorio specifico. Nel caso degli strumenti storici abbiamo poi a che fare con vere e proprie “macchine del tempo”, capaci di aprire un varco tra la nostra epoca e la loro. Bach all’organo Hildebrandt di Naumburg, Buxtehude e Bruhns a Stade o a Norden, Frescobaldi in S. Petronio a Bologna… Ma anche Franck al Cavaillé-Coll di S. Sernin a Tolosa o Reger al monumentale Furtwängler-Hammer di Verden: sono alcune delle esaltanti esperienze di “simbiosi” tra strumento e repertorio che ricordo con più piacere. Tra gli organari attuali che più mi convincono citerei il belga Patrick Collon, il francese Marc Garnier e le ditte svizzere Goll e Mathis; in Italia apprezzo soprattutto Giovanni Pradella e Dall’Orto-Lanzini. Tuttavia non mi ritengo assolutamente un organologo, bensì un interprete: mi è sempre stato difficile vedere nello “strumento”, proprio in quanto tale, un oggetto di venerazione fine a sé stesso. A mio avviso è soltanto la magica convergenza con la musica a trasformare questi pur ammirevoli miracoli di artigianato (e, più recentemente, di tecnologia) in autentiche opere d’arte.

Generalmente su che strumenti insegna? Insegna anche il repertorio italiano? 

Nei corridoi dell’Università per la Musica di Vienna ci sono una dozzina di organi di piccole dimensioni, su cui gli allievi si possono esercitare. Per l’insegnamento abbiamo a disposizione tre strumenti più grandi: oltre che di un buon Hradetzky nell’adiacente chiesa di St. Ursula, usufruiamo di uno strumento in stile barocco tedesco di Patrick Collon e di un Rieger sostanzialmente romantico. Entrambi sono stati inaugurati nel 2012 e rappresentano qualitativamente un grande passo in avanti. Di tanto in tanto gli studenti sono invitati a prodursi su qualche strumento del centro storico, come il Sieber della Michaelerkirche (1714) o lo Späth in stile sinfonico francese della vicina Jesuitenkirche. L’anno prossimo, per il primo centenario della morte di Max Reger, la mia classe offrirà un programma monografico al grande Mathis della Schottenkirche. Sì, la musica italiana è parte integrante dei nostri programmi d’insegnamento: certamente quella rinascimentale e barocca, ma anche alcuni pezzi di Marco Enrico Bossi, compositore tardoromantico in forte rivalutazione.

Il Suo grande interesse verso la musica del Novecento e contemporanea l’ha portata a collaborare con numerosi compositori viventi. Come reagisce il pubblico alla musica contemporanea, c’è interesse, sorpresa? Ha trovato delle differenze tra il pubblico italiano e quello straniero in termini di attenzione rispetto a questo repertorio?

Sulla musica contemporanea il pubblico centroeuropeo può essere più “informato” di altri, ma questo non è sempre un fatto positivo; la conoscenza superficiale di un fenomeno è spesso il primo passo verso il pregiudizio… Tuttavia, ovunque ci si può ancora imbattere in prevenzioni perduranti dagli anni Cinquanta, quando la Nuova Musica era di fatto diventata un fenomeno da laboratorio. Oggi non è più così, ma l’incontro col “nuovo” presuppone sempre la volontà, da parte di chi ascolta, di accostarsi a qualcosa che ancora non conosce. In questo il pubblico centroeuropeo dimostra generalmente grande apertura, in quanto la musica d’arte, storicamente, non viene percepita solo come una forma di intrattenimento, ma come qualcosa di più profondo. Non sto affermando che agli italiani manchino qualità come curiosità o introspezione: semplicemente, non ci è dato spesso modo di esercitarle. L’approccio alla musica contemporanea è infatti facilitato da una più alta “esposizione” alla stessa, e in questo chi opera nel nostro settore detiene una grande responsabilità. A nord delle Alpi è sempre più frequente l’ascolto di lavori recenti in luoghi votati al repertorio tradizionale, come il Musikverein di Vienna, né è raro imbattersi in compositori viventi accendendo la radio o la televisione. L’Italia, da questo punto di vista, può scoraggiare anche l’idealista più fervente: la logica di mercato insinuatasi nei massmedia a partire dagli anni Ottanta, e diramatasi fino ai più alti livelli della vita pubblica, sembra aver spazzato via tutto. Da bambino, mi avvicinai all’organo anche grazie ad una serie Rai dedicata all’opera di Bach; e sono ancora in tanti a ricordare l’ottima trasmissione “C’è musica e musica”, curata da Luciano Berio. Operazioni del genere sono oggi impensabili… Ma ancora voglio credere che le cose possano cambiare. Anche se ci vorranno decenni.

Numerose le incisioni discografiche, da Dietrich Buxtehude a Marco Enrico Bossi, dalla Clavierübung di Bach all’opera organistica di Bruno Bettinelli. Di quali altri compositori vorrebbe ancora incidere le opere?

Mi permetto di citare anche i due lavori discografici più recenti: uno è dedicato all’importante produzione organistica di Thomas Daniel Schlee, un allievo austriaco di Olivier Messiaen; l’altro a quella di P. Terenzio Zardini, frate compositore morto a Verona nel 2000, una delle tante vittime della nostra perdurante esterofilia – proprio non voglio convincermi che l’unica erba verde sia quella del vicino, nemmeno in musica!
Il mercato discografico, soprattutto quello “di nicchia”, è ormai ridotto allo stremo dai nuovi media – o meglio, dalla mancanza di norme adeguate che ne disciplinino il comportamento: non è possibile che un’incisione sia già fruibile su You tube o Google Music prima della data di pubblicazione… Oggi il CD è diventato un’operazione di p.r. o una manifestazione di puro idealismo, e questo credo sia proprio il mio caso. Amo puntare l’obiettivo su compositori a mio parere ingiustamente sottovalutati (anche del passato, com’è stato il caso di Gottlieb Muffat) o su aspetti meno sondati dei grandi classici; è un modo di contribuire, nell’ambito delle mie ristrette competenze, a quello che un po’ ampollosamente chiamiamo “scibile umano”… Nel prossimo futuro tornerò ad incidere musica del primo barocco, forse Froberger, forse Frescobaldi. Come pure vorrei valorizzare i rari lavori per organo dei grandi compositori viventi non organisti: calibri come Wolfgang Rihm o György Kurtág hanno scritto occasionalmente per il nostro strumento, ma ciò che ne è venuto fuori ha ancora bisogno di una spinta…

Un capitolo importante del suo lavoro è costituito dalle pubblicazioni musicologiche, anche in questo caso spazia da Buxtehude ad Anton Heiller (autore del ‘900). Non c’è un riferimento alla musica organistica italiana dell’800, c’è un motivo?

Se è per questo mancherebbero molte altre aree stilistiche… I miei articoli sono sempre il prodotto di un’esperienza esecutiva, redatti magari sull’onda di un’incisione discografica. Del repertorio italiano ottocentesco – quello, per capirci, influenzato dall’estetica operistica – mi sono occupato solo saltuariamente; inoltre, mi è sempre sembrato strettamente connesso agli strumenti coevi, come i Serassi o i Lingiardi, ai quali ho accesso solo raramente.  Non ho però alcuna prevenzione nei confronti di questa musica, che considero un interessante fenomeno di “contaminazione”. Peraltro nient’affatto isolato: la scrittura per organo di P. Davide da Bergamo e Vincenzo Petrali sta a Rossini e Verdi come quella di Liszt e Franck a Meyerbeer e Wagner.

Lei è anche compositore; negli ultimi anni ha scritto molto su commissione, titoli come “Im Todesjahr des Konigs Usija” per coro femminile, tenore e strumenti, “Mane nobiscum” per coro misto, violoncello, organo e campana, “Sprachfenster” per voci recitanti, coro, due percussionisti e strumenti barocchi…. Dal 2015 l’editore Bärenreiter inizia a pubblicare Suoi lavori. Come riesce a conciliare il lavoro di concertista, insegnante e compositore? Ha altre opere in programma per il 2016?

È una “tripla vita” certamente non facile – il segreto sta nel non fare mai tutto insieme… Lavoro generalmente in fasi delimitate, cercando di darmi delle priorità. Ma è indubbio che una cosa condizioni l’altra, anche in modo positivo. Credo che le mie interpretazioni sarebbero molto diverse senza la continua esperienza “dal di dentro” della composizione; d’altro canto, solo chi ha pratica esecutiva è in grado di verificare la fattibilità di un’idea. Ma alla fine non stiamo parlando dello stesso “oggetto”, osservato da prospettive differenti…?
Per il 2016 sto lavorando ad un pezzo per pianoforte e organo, Interludes and notturno (come vede, scrivendo parto dal titolo: per me è una specie di “tema” che definisce il clima generale sin dalla prima nota); si tratta di una serie di “fogli d’album” concatenati tra di loro in cui i due strumenti, più che sovrapporsi, si alternano; il pezzo verrà eseguito ad Alberta (Canada) all’inizio dell’Estate, ed in Autunno anche a Vienna. Già concluso è un Cantico delle creature per coro a cappella, scritto di getto senza commissione; è un testo che continua ad affascinarmi e al quale ritorno periodicamente, con organici sempre diversi. Uno dei migliori cori viennesi ha già fissato la prima esecuzione per il prossimo anno.

Il Suo 2015 è stato un anno ricco di eventi, concerti, masterclasses, concorsi. Cos’ha in programma per il 2016?

Per la prima volta farò parte del corpo docenti della Summer Organ Academy di Haarlem (Olanda), una delle più prestigiose accademie organistiche al mondo; è un grande onore per me “succedere” al M° Tagliavini con un corso sulla musica italiana, anche se lo farò a modo mio, focalizzando su un repertorio da Frescobaldi a … Luciano Berio. In quest’occasione tornerò a suonare ad Alkmaar, su uno degli organi barocchi che più mi affascinano. Tra un appuntamento solistico e l’altro (Innsbruck, Melk, Poznan, Göttingen…) proporrò anche, insieme all’amico e collega Massimiliano Raschietti, un programma a due organi (Monza, Milano e Muri, in Svizzera). Nel 2017 sarò in giuria ai concorsi di St. Albans (GB) e Esbjerg-Ribe (DM), e darò un corso sul magnifico organo Cavaillé-Coll di S. Sebastian (SP). 

Grazie Maestro Peretti per questa intervista. Tanti auguri per la sua attività presente e futura.

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