In occasione della presentazione del nuovo libro della scrittrice Judith Hermann il 4 settembre, organizzato dal festival internazionale di letteratura a Berlino, ripropongo la mia intervista. Buona lettura, Emilio Esbardo
Judith Hermann è Berlino, frenetica, giovane, dinamica, vogliosa di cambiare e sperimentare, è il suono di una metropoli che giunge alle nostre orecchie attraverso le sue frasi brevi, dirette, sincere, senza alcun orpello retorico, che rispecchiano il suo tempo, distante dalle ideologie e dai discorsi belli ed esteticamente perfetti delle generazioni precedenti ma astratti e lontani dalla realtà. Judith Hermann è Berlino e la sua generazione.
A innalzarla al rango di grande scrittrice (“Oggi, in Germania, è nata una grande scrittrice”) fu il temutissimo critico letterario Marcel Reich-Ranicki, che recensì “Casa estiva, più tardi”.
Era uno degli ultimi giorni del mio soggiorno in Germania come studente Erasmus. Mi aggiravo nella più grande libreria di Bonn, quando la mia attenzione cadde su un libro messo bene in evidenza. Una nuova scrittrice di successo: Judith Hermann, diceva il cartellone pubblicitario. Il titolo del libro, “Sommerhaus, später” (Casa estiva, più tardi).
L’autrice narra storie di vite normali: amori, amicizia, paure, speranze, piccoli problemi quotidiani, preoccupandosi sempre di scavare in profondità. Nelle nove storie, che compongono il libro, si riflettono le esperienze della stessa scrittrice: una ragazza a becco d’uccello, “fumatrice eccessiva”, a ventotto anni aveva cambiato tre volte facoltà. Si era iscritta al Conservatorio, poi a Lettere e poi a Filosofia, fin quando decise di servire birra in un locale nella ex Berlino Est. A innalzarla al rango di grande scrittrice (“Oggi, in Germania, è nata una grande scrittrice”) fu il temutissimo critico letterario Marcel Reich-Ranicki, che recensì “Casa estiva, più tardi”, allora pubblicato da una piccola casa editrice di Berlino.
Judith Hermann utilizza uno stile asciutto, le frasi sono brevi e il linguaggio giovanile: “Liebe, geht es Dir gut? Ich hatte einen langen Tag und gehe jetzt schlafen, 22 Uhr, meine Füsse sind völlig zerschunden von den gottverdammten neuen Schuhen. Ich habe eingekauft, Obst und Milch und Wein, mehr Geld war nicht da.” (“Amore, va tutto bene? Ho avuto una giornata lunga e adesso vado a dormire, ore 22, i miei piedi sono distrutti a causa di queste maledette scarpe nuove. Ho fatto la spesa, frutta, latte e vino, non avevo più soldi”). Le atmosfere ricreate sono tipiche dei tedeschi, melanconiche, romantiche con gli alberi dai rami spogli, i cieli grigi, l’odore di neve.
Judith Hermann è Berlino, frenetica, giovane, dinamica, vogliosa di cambiare e sperimentare, è il suono di una metropoli che giunge alle nostre orecchie attraverso le sue frasi brevi, dirette, sincere, senza alcun orpello retorico, che rispecchiano il suo tempo, distante dalle ideologie e dai discorsi belli ed esteticamente perfetti delle generazioni precedenti ma astratti e lontani dalla realtà (che anzi la rendevano artificiale e distante, senz’anima).
Judith Hermann è Berlino e la sua generazione. Definire una generazione, e indicarne gli appartenenti, è difficilissimo. Essa è un concetto astratto, una generalizzazione che non può essere dimostrata empiricamente. Eppure dalla molteplicità dei singoli destini nasce una sorta di destino collettivo, dalla somma di esperienze individuali una sorta di esperienza comune. È fuor di dubbio che ognuno abbia vissuto singolarmente la caduta del Muro, ma è pur vero che essa è stato un avvenimento comune a tutti, che ha portato ad una compartecipazione di vicende, circostanze, situazioni, mutamenti. E Judith Hermann non è stata una eccezione; in un modo suo personale ha raccontato di un preciso periodo storico della sua città vissuto, però, collettivamente. Anche lei, come la maggior parte degli artisti, ha trascorso intere giornate votate alla cultura, tra bar, café, discoteche, teatri, cinema della Berlino est, dove sono ambientati molti suoi racconti. Insomma una scrittrice che con le sue frasi brevi, semplici e “concrete” ha dato voce alla sua generazione, apolitica, indifferente alla realtà che la circonda e che si lascia trascinare dagli avvenimenti casuali. Il suo secondo libro (“Nichts als Gespenster”, “Nient’altro che spettri”) è un’altra raccolta di racconti che ha avuto critiche entusiastiche e ha venduto, nella sola Germania, oltre 250.000 esemplari. Nel 2009 è stato pubblicato il suo ultimo libro “Alice”.
—-
INTERVISTA A JUDITH HERMANN
—-
Queste non sono delle domande, bensì due affermazioni:
Quando sarà infranto l’infinito servaggio della donna, quando ella vivrà per se stessa e grazie a se stessa, poiché l’uomo, – fino a oggi abominevole, – l’avrà congedata, la donna sarà poeta, anche lei! Troverà la sua parte d’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Ella troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; le prenderemo, le comprenderemo.
– Dalla lettera di Arthur Rimbaud a Paul Denemy; Charleville, 15. Maggio 1871 (traduzione di Diana Grange Fiori). “Presi fiato, sollevai le mani e le lasciai nuovamente cadere, avrei voluto dire che non mi interessavo di me ma pensai che era una bugia, io mi interessavo esclusivamente di me stessa. È questo, forse, che non c’è niente, soltanto stanchezza e giornate vuote e silenziose, una vita come quella dei pesci sott’acqua e risate senza motivo? (Adesso giunge il punto a cui sono interessato) Avrei voluto dire che ho troppe storie dentro di me che mi rendono la vita difficile…”
– Dal racconto di Casa estiva, più tardi: Coralli rossi. (Traduzione di Barbara Griffini)
Hai qualcosa da dire a proposito?
Debbo pensare un momento. Sono contenta, che tu hai scelto questo brano del libro, perché è molto importante per me. È un po’ come un motto per tutte le storie. Il racconto “Coralli rossi” è la storia di apertura del libro “Casa estiva, più tardi”. Frasi come: “Avrei voluto dire che ho troppe storie dentro di me che mi rendono la vita difficile” etc. sono esempi di questo motto. Io voglio narrare i racconti, per liberarmene e continuare ad andare avanti, che in un certo qual modo è il motivo dello scrivere. Il personaggio che fa questa affermazione è come un mio alter ego. Questo vale per tutti i racconti. Per questo la citazione è il passaggio di una storia che si trova all’inizio del libro. Per questo io sento la scrittura, senza voler ideologizzare, come una possibilità, per manifestare qualcosa, lasciarla uscire fuori di te, per poi passare a qualcosa di nuovo. All’incirca così…
—
Si pensa, che lo/la scrittore/trice cerca consapevolmente, di fare determinate esperienze, per poterne poi scrivere un libro. Voglio dire, essi trasformano le loro esperienze, attraverso il freddo e calcolato processo della scrittura, in racconti. Io credo di aver intravisto tracce di una simile ricerca di esperienze nei tuoi libri. Ad esempio:
“Aveva invitato una cinquantina di persone, ero sicuro che solo pochissimi fossero veramente suoi amici. Tuttavia era una combinazione di ospiti, di facce e di caratteri che a un certo punto permise a quel vecchio palazzo lungo la Sprea di sganciarsi dalla realtà, almeno questa fu l’impressione…”
– Dal racconto di Casa estiva, più tardi: “Sonja”. (Traduzione di Barbara Griffini) Sei d’accordo, su ciò che la mia affermazione e il brano del testo sopracitato in generale concernono?
Dunque, in ogni caso, è che il proprio vissuto, le proprie esperienze confluiscono, in modo visibile, nel testo, attraverso un determinato processo di trasformazione. Non posso scrivere di qualcosa che non ho vissuto, ma solo di cose, che io conosco. Debbo, dunque, essere passata attraverso un determinato processo di esperienze. Ma sotto un altro punto di vista, credo, che ci si debba guardare, nel ricercare determinate esperienze, per poi poterne scrivere. Non penso che funzioni così. Per lo meno l’ho evitato. Con il primo libro non ho dovuto farlo, perché scrivere il tuo primo libro, è qualcosa di molto particolare: non si sa niente, ma non si ha neanche nessuna paura. È come un tipo di innocenza della scrittura, che più tardi passa. Io ho scritto qualcosa del mio divenire adulta, tra gli anni 1990-1996 a Berlino. Poi con il secondo libro, ho chiaramente compreso, che io non posso utilizzare molto la realtà, non posso uscire e osservare se questa o quella esperienza e avvenimento potrebbero confluire in un racconto, bensì debbo stare molto più attenta. Non si deve andare dalle cose, bensì lasciare che esse vengano da te.
—
Riguardo al processo della scrittura: Io penso che lo/la scrittore/trice, aggiungano tracce di se stesse nei loro racconti. Per esempio, tu hai spiegato in alcune interviste, che non ti lasci fotografare volentieri, poiché nelle foto sembri essere come uno di quei ritratti di Madonna del XV secolo. A pagina 56 di Casa estiva, più tardi si può leggere:
“…Non era affatto bella. In quel primissimo momento era tutt’altro che bella, così in piedi con addosso un paio di jeans e una camicia bianca troppo corta; i capelli lisci e biondi erano lunghi fino alle spalle e la faccia era tanto insolita e antiquata da ricordare uno di quei ritratti di Madonna del XV secolo, una faccia affilata, quasi appuntita…” (traduzione di Barbara Griffini).
Io dalla lettura del racconto (“Sonja”) ho capito che la scrittrice Judith Hermann cerca di descrivere la ragazza Judith Hermann. Cosa ne pensi?
È esatto, ma non del tutto: io tento di descrivere una figura da romanzo, che da un certo punto di vista ha a che fare con me, ma se lo si legge bene, non è come me, bensì come sarei voluta essere, ma non lo sono mai stata. Io descrivo come mi piacerebbe essere. Sonja è una figura strana, è estremamente indipendente, molto coerente e caparbia in ogni cosa… queste sono tutte caratteristiche che io avrei voluto possedere.
La generazione, di quelli cresciuti nell’est, la cosiddetta “Zonenkinder Generation”, è quella a cui appartengono autori come Jana Hensel, Jana Simon, Andreas Gläser, Jakob Hein e così via. Questa generazione di scrittori, ma anche stranieri come Kaminer o Yadé Kara, menzionano sempre il Muro e la divisione della Germania. Al contrario, per gli scrittori della parte occidentale, quelli della “Generazione Golf”, questo argomento non sembra essere così importante da trattare nei loro libri.
Ingo Schulze, lo scrittore della RDT, ha detto una volta: “la RDT non esiste più, il paese è scomparso dalle carte geografiche”. È talmente semplice, che non ci si neanche prova a dirlo: c’è stato un cambio di sistema. Io sono cresciuta in un sistema capitalistico, che dopo la caduta del Muro è rimasto un sistema capitalistico. È sicuro che il sistema comunista ha vissuto una perdita di identità… Allora nel 1990 vi sono state determinate situazioni emozionali e, so ancora molto bene, che non mi erano indifferenti. Al contrario mi hanno toccato molto… La caduta del Muro giunge nelle mie storie; ci fu una precisa atmosfera, una atmosfera di cambiamento, una euforia e una superficie vuota. Ci furono molte possibilità e molte domande aperte. Che cosa ne sarà della nuova Germania riunita? Come diventerà Berlino? E come diventerà la generazione, che è ad un punto di svolta della sua vita e che deve ritrovarsi in un nuovo sistema?…
Queste domande mi hanno occupata molto. Ma che mi hanno strappato la vita da sotto i piedi, non lo si può affermare.
—-
In “Sonja” menzioni un paio di volte i turchi. Ad esempio: “Raccontai della Danimarca, dei ragazzi turchi nel cortile di casa…”. Non si può negare, che i turchi e la cultura turca soprattutto nella letteratura e nella cinematografia abbiano un forte influsso a Berlino. Qual è il tuo rapporto con loro?
Io sono cresciuta a Neuköln e questo è un distretto, che negli anni ottanta in modo sempre crescente è stato influenzato da culture differenti dei numerosi stranieri.
Io ho vissuto alla fine degli anni ottanta a Kreuzberg (quartiere famoso per la numerosa presenza di turchi). Adesso abito a Prenzlauer Berg (quartiere famoso per la sua vita culturale) e lì non vi sono molti stranieri e questo è un peccato. Adesso nel mio cortile di casa non ci sono più ragazzi turchi, che giocano a calcio…
—-
Non sono soltanto i turchi, che hanno una forte influenza su Berlino, ma anche i russi. E guarda caso noi troviamo la Russia nel racconto “Coralli rossi”. Qual’è il tuo rapporto con la Russia?
È un po’ come un sogno, qualcosa di infantile. Non sono mai stata in Russia. È un mio grandissimo desiderio. Il Volga e tutte queste cose… nostalgia, in fin dei conti. (Hai parenti russi?)
Nooo…
—–
Sin dal mio arrivo a Berlino (circa un mese), ho realmente compreso le tue storie. Voglio dire di aver “sentito”, ciò di cui hai raccontato. Mi sono più volte detto: sì ciò che Judith Hermann ha scritto corrisponde a verità. Ogni volta che passeggio tra le strade di Berlino, penso ai tuoi racconti. Come vivi Berlino? Esattamente come la racconti, o diversamente? Hai pensato qualche volta di abitare altrove?
Sono molto attaccata a Berlino. Ho sempre sperato di poter andare in macchina lungo la “Unter den Linden” (una delle vie più famose…) e vederla con gli occhi di uno che è per la prima volta a Berlino. Ma non ci riesco ed è un peccato. Sono stata via solo una volta: mezzo anno a New York. Ho avuto moltissima nostalgia di casa, dell’Europa. E so anche, che se dovessi di nuovo partire, ritornerei di nuovo a Berlino. Non potrei abitare in nessun altra parte della Germania, anche se fossero Amburgo o Monaco. Mi mancherebbe immediatamente Berlino. Sono stata a Parigi e la trovo orrenda. Ciò che si trova a Berlino, che effettivamente non è bello, le cose incompiute e provvisorie, gli spazi vuoti, che in modo sorprendente ancora esistono, la scortesia dei berlinesi, il lungo inverno, mi piacciono, perché è da 35 anni, che vivo qui. Queste cose mi hanno forgiato. Più invecchio e più capisco il concetto di patria. Questa Alexanderplatz ad esempio, in tanti la trovano “molto Berlino” (È una piazza che corrisponde alle caratteristiche di Berlino finora enunciate da Judith Hermann. Dalle finestre del quinto piano del ristorante dove ci siamo incontrati, guardando in giù
risaltano all’occhio i numerosi lavori non ancora portati a termine)…
—-
“Dopo quella volta andammo quasi sempre in taxi. Per ogni percorso Stein aveva una musica diversa, Ween per le stradi statali, David Bowie per il centro storico, Bach per i vialoni, Trans-AM soltanto per l’autostrada…” (Dal racconto “casa estiva, più tardi”).
In molti libri degli autori trentenni, la musica è molto importante, non soltanto in Germania, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Per esempio “High Fidelity“ e “About a boy“ di Nick Hornby. Mi puoi spiegare come la musica ha influenzato te e la tua generazione? Secondo il tuo parere, quale gruppo o cantante ha influenzato la “Generazione Golf”?
Non lo so, perché non so mai precisamente cosa sia una generazione e soprattutto la “Generazione Golf”. Naturalmente dovrebbero essere gli autori nati negli anni settanta, ma io trovo difficile comprendere il concetto di generazione. Ho sempre cercato di sottrarmi. E non mi sento neanche di appartenere ad una. E che tipo di musica abbia influenzato la mia generazione, sempre se esiste, non lo so. Ascoltare musica, in determinate situazioni, significa avere qualcosa come una colonna sonora per la propria vita: si sale in auto con i propri amici e via si parte, si infila una cassetta nello stereo e poi nasce una certa sensazione. La musica trasporta una sensazione di vita. È come la musica per i film. È come se ci si sedesse di fronte al proprio film. E lo si può fare a lungo. Ma prima o poi termina. Adesso io non posso più farlo. È realmente passato. È il cambiamento di età, probabilmente. Oggi siedo in macchina e non ascolto più musica. Allora ho viaggiato lungo i uckermärkischen viali e ascoltavo Tom Waits e ho avuto la sensazione di non essere quella che ero. Ero un’altra. La musica e il rullare con la macchina ti sbarazzano per un breve periodo di tempo della tua propria identità. Io sono stata influenzata da Tom Waits e i Beatles. Quella è stata in ogni caso, la musica che io ho amato, e non era assolutamente attuale. Florian Illies direbbe forse, che nel 1986 sono stati i Depeche Mode. Questo, credo, non lo si può generalizzare. Ma da generalizzare è l’associazione della musica con la propria vita, che però non dura per sempre. Più si avanza con gli anni, più alcune cose terminano. Poi si ha un figlio e si è in ogni caso radicati, sempre più radicati. Poi si cessa di ascoltare musica, perlomeno nella maniera sopradescritta. Mi ricordo ancora del periodo quando vi era il walkman e si potevano sistemare le cuffie e gironzolare per la città, questa era anche un cambiamento di stato, o no? Ci si isolava dal mondo esterno con la musica e mentre si camminava lungo una strada, essa cambiava, era un’altra. Le persone, in cui ti imbattevi, erano differenti e tu andavi ad un altro passo, come non avresti mai fatto senza musica, ed era filmico. Ed io so, che, mentre scrivevo, qualche volta ho pensato: io potrei descrivere, com’è, sedere in un’auto, nella quale alcune volte ci si sdraia e rullare lungo un viale e sia a destra che a sinistra fioriscono i campi di grano e io potrei raccontare del profumo e dell’aspetto del cielo e della macchina e di come mi sento. Ma io posso anche semplicemente scrivere: “Noi rullavamo lungo questo viale e ascoltavamo Trans AM”. E se si sa, come suonano i Trans AM, allora si sa anche, come è. Dunque era realmente facile, un “trucco”. Raymond Carver ha detto una volta: “Non barare“. In “casa estiva, più tardi” è “un bel baro”.
—-
L’unica domanda politica. Quando Papa Giovanni Paolo II è morto, la chiesa ha affermato, che senza di lui il Muro di Berlino non sarebbe caduto, o per lo meno sarebbe caduto molti anni dopo. Cosa ne pensi?
Detto onestamente, è estremamente imbarazzante. Io non ho ancora sentito questa dichiarazione. Mi stupisce. Mi vergogno un pò, perchè probabilmente è vero e io non l’ho notato. Non so, Berlino non è cattolica, questo è sicuro. Berlino è, se ancora lo è, protestante, ma oggi non mi sembra più. Io sono stata una volta, ad esempio, a Warschau e direi, che è una città veramente cattolica, e lo si nota dalla fisionomia della città e nelle chiese strapiene e nelle processioni domenicali, durante le quali i bambini vengono battezzati. Ma Berlino è una città, che può essere definita attraverso numerose altre cose, e non solo come cattolica o protestante, bensì piuttosto
con la politica e la sua lacerazione e il tempo della sua divisione. Io sono cresciuta areligiosamente però ho sviluppato sin da bambina una forte inclinazione al cattolicesimo. Esso mi è molto vicino, e ciò dipende probabilmente dai suoi rituali. Quando sono in Italia e vedo, come la chiesa è legata alla vita di tutti i giorni, ciò mi colpisce. Mi augurerei che anche qui lo fosse alcune volte. Ma non lo è. Berlino non è una città cattolica.
—–
Dopo LSD, i mozziconi di spinello, “essersi incamminati per viversi un tramonto allucinogeno”, e l’estasi, che cosa ne sarà della “Generazione Golf”. Come descriverà Judith Hermann la sua generazione, divenuta nel frattempo un po’ più grande?
Questo è un qualcosa, che io naturalmente non posso ancora dire. Da una parte sarei felice, se lo sapessi, dall’altra desidero non saperlo affatto. Ho fatto una volta una bellissima conversazione con Günther Grass, che appartiene ad una generazione di scrittori politici (a differenza della generazione di scrittori a cui appartengo io, che non sono saliti sul podio politico e hanno compreso il ruolo dello scrittore fondamentalmente come non politico). Esiste una frase molto semplice: “Apolitico è anche politico”, ed è vero. Grass, in questa conversazione, che girava attorno a questa questione e durante la quale mi sono vergognata per essermi dichiarata apolitica, mi disse: “Prima o poi lo diventerà. Non avrà scelta”. Questo risuonò paternale e io penso che forse ha ragione. Se si rimane scrittori e la situazione politica cambia, e probabilmente cambierà inquietantemente, si salirà, lo si vuole oppure no, su un podio politico, che ora non si può concepire. Forse è un privilegio dei giovani, nati tra il 1970 -80, poter parlare in questi anni così. Sono stati anni che ci hanno risparmiato da tempi terribili. L’unico avvenimento storico di rilevanza, che è accaduto nella mia vita, è stato la caduta del Muro e questo è un avvenimento positivo, un momento storico felice. Forse ci saranno altri avvenimenti, che avranno un’influenza diretta sulla mia vita e allora scriverò probabilmente di altro. Io penso ad esempio all’undici settembre e a tutte queste cose. Allora mi posso chiedere: mi ha influenzato l’undici settembre? Sì e no. Io porto mio figlio a letto ogni sera e sono consapevole del fatto che egli crescerà in un mondo di pace e che dunque io non debbo aver paura. Questo mi sorprende ma mi riempie di gratitudine. E allo stesso tempo con perplessità mi chiedo, come va in un’altra parte del mondo.
—-
Siamo giunti al termine dell’intervista, vuoi aggiungere qualche altra cosa?
Quando io ho preso il treno in Toscana per Roma, siamo passati in una zona relativamente poco abitata: villaggi abbandonati, esodo dalle campagne, stabilimenti industriali… e poi una casa dove vi era un grande graffito. Ed era più o meno: “Marta! Mi manchi”. Nel desolato angolo del treno questa casetta mi apparve come un momento poetico. Questo sperduto villaggio e l’intera storia che vi è dietro, è ciò che ricordo, quando penso all’Italia. E questo è forse un bel ritorno all’inizio dell’intervista. Ossia le storie che non si devono cercare, ma che giungono semplicemente. Piuttosto anche sensazioni di un attimo dalle quali nasce un racconto intero. Questa frase, “tu mi manchi”, e questa casa in rovina, in questo villaggio abbandonato, anche sedendo nel treno in movimento da un luogo ad un altro, ha generato qualcosa in me. Probabilmente semplicemente la nostalgia di un’altra vita. Ciò non lo dimenticherò facilmente. E più tardi confluirà in un altro racconto. C’è questo gruppo, che si chiamano i Puhdys. È un gruppo leggendario della RDT. Un grande e importante gruppo musicale, che ha scritto molti pezzi patetici e kitsch ma anche vigorosi. C’è un film molto celebre che si intitola “La leggenda di Paolo e Paola”. È uno dei più bei film d’amore della RDT, se non uno dei più belli in assoluto. Un film DEFA degli anni settanta. La sceneggiatura e i testi musicali sono di Ulrich Plenzdorf e la musica dei Puhdys. C’è anche la frase della canzone “Vai da lei e fai volare il tuo aquilone”. Io l’ho inserita nel racconto “Casa estiva, più tardi”, per chiarire, che la casa in questione è nell’est, che questa è una casa che era nel territorio della RDT e che le persone, che hanno lasciato questo graffito, avevano un passato nella RDT. Doveva essere come un codice. O lo si riconosce e ci fa piacere, o non lo si riconosce, e allora rimane solo una frase. C’è anche una bella storia riguardo a questa canzone. Un mio amico mi ha detto, che è dovuto giungere all’età di vent’anni, per comprendere, ciò che realmente significhi: “vai da lei a fai volare il tuo aquilone”. Aveva sempre capito, che un uomo andava da una donna e lasciava volare il suo aquilone. Aveva avuto bisogno di tantissimo tempo prima di comprendere, che era una metafora per l’amore. L’ho trovato fantastico.
Follow Us!