Speciale fotografia: intervista a Stephan Erfurt

Stephan Erfurt è un importante fotografo a livello internazionale. Ha studiato presso la rinomata scuola “Folkwang” di Essen, prima di realizzare, per 15 anni, dal 1984 al 1999, grandi reportage su svariati temi in tutto il mondo per il “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Dal 1984 al 1989 ha vissuto a New York, impegnandosi nella fotografia paesaggistica, urbanistica, etc. Stefan è stato anche assistente del celebre fotografo Hans Namuth. Le foto di Erfurt fanno parte delle collezioni del MoMA di New York e del Museo Ludwig di Colonia. A Berlino ha conosciuto il grafico Marc Naroska e l’architetto Ingo Pott, con i quali ha fondato la Galleria C/O. Stephan Erfurt ha avuto la gentilezza di ricevermi, per un’intervista, nel suo ufficio personale, nonostante fosse molto impegnato nelle preparazioni della nuova mostra di luglio.


Signor Erfurt, ci può raccontare la storia della Galleria C/O, come vi è venuta l’idea?

È venuta naturalmente. E’ stata soprattutto un’idea mia. Volevo offrire ai giovani fotografi, che sono ad una via di mezzo tra la formazione e la professione, un luogo nel cuore di Berlino, dove poter mostrare i loro primi lavori al grande pubblico e alla stampa. Volevo inoltre evitare a molti di loro la prassi comune a molti fotografi di correre con i loro portfolio da gallerista a gallerista, da editore ad editore. Questo è oggi il compito della sezione “Talenti” della Galleria C/O. Aiutare i giovani fotografi e gli storici d’arti era ed è l’obiettivo di fondo della C/O.

Stephan Erfurt nel suo ufficio nella Galleria C/O - Foto: Emilio Esbardo

Ha qualche aneddoto, qualche storia divertente legata alla Galleria C/O da raccontarci?

Al momento non mi viene in mente nessuna storia divertente, anzi al contrario. Tutto è iniziato con una persona e una stanza. Oggi abbiamo 50 dipendenti e uno spazio espositivo di 2000mq. Non abbiamo mai ricevuto denaro pubblico, abbiamo sempre dovuto faticare per poter continuare a finanziare la galleria. Spesso si tocca il fondo, si cade sulle proprie ginocchia ma ci si deve rialzare e con molta passione continuare il proprio lavoro. Abbiamo attraversato periodi durissimi, per niente divertenti. Ma siamo riusciti a divenire una reltà affermata di Berlino.


Quali sono state le mostre più importanti per lei alla Galleria C/O?


Tutte le mostre sono importanti. Per alcune il cuore batte di più, per altre di meno. Dipende dall’esposizione. Abbiamo avuto fotografi famosissimi come Peter Lindbergh e Annie Leibovitz. Con i proventi della mostra di Lindbergh abbiamo finanziato la piccola esposizione di Fred Herzog, ottantenne, che vive in Canada, non ha mai pubblicato un libro ed è tra i pionieri della fotografia a colori. La sua mostra è stata un successo a sorpresa, inaspettato. La gente veniva a vedere le foto di Peter Lindbergh, che forse già conosceva dalle riviste di moda e rimaneva sorpresa e affascinata da lavori sconosciuti. Questa sorpresa ha aperto i loro cuori e le loro menti. Le persone si soffermavano di più su queste immagini a cui non sono preparate. Mi diverte molto poter stupire i visitatori in questa maniera.

Inaugurazione della nuova mostra di luglio - Foto: Emilio Esbardo

Secondo lei, la fotografia è arte?

Non mi sono mai preoccupato di questo argomento. Quando scatto una foto so che è soltanto il 50% dell’immagine finale: la realizzo dal mio punto di vista, influenzato dalla mia vita personale. Diventa un’immagina completa soltanto nella testa dello spettatore, quando ci aggiunge la sua esperienza di vita, la sua personalità. Per alcuni è arte, per altri è documentazione. A ognuno il proprio parere.

Guardando una foto è possibile riconoscere se è stata scattata da un uomo o da una donna?


Non sempre lo si può affermare. Ci sono moltissime fotografe, che hanno uno stile maschile, e, viceversa, parecchi fotografi con uno stile femminile. Esiste, però, una certa sensibilità, un universo proprio delle donne, che traspare nelle loro foto. La fotografa Ute Mahler ha inaugurato la nostra mostra della fotografa Sybille Bergemann proprio per descrivere questo universo femminile delle fotografe. Dunque io penso che ci sia la possibilità, con una percentuale del 70%, di affermare se una foto è stata scattata da una donna. Al 100% non saprei.


L’arte in generale e la fotografia, in questo caso, possono cambiare il mondo? O la fotografia ha solo la funzione di documentare/raccontare ciò che accade nel mondo?

Don McCullin, un bravissimo fotografo di guerra, è venuto a visitarmi a Berlino. Oggi vive solitario in Inghilterra. Non riceve più commissioni, perché ha sempre preferito lavorare come fotografo indipendente e non come fotografo accreditato. Lui ha ammesso che la fotografia non può cambiare il mondo. Forse possiamo muovere le coscenze delle singole persone con le nostre foto ma non cambiare gli eventi. Nonostante ciò non dobbiamo lasciarci scoraggiare e continuare a lavorare. Soprattutto oggi è importante applicarsi più meticolosamente e a lungo ai nostri progetti. I media, le trasmissioni televisive e le fotografie fatte dai cellulari testimoniano velocemente ciò che avviene in ogni angolo del pianeta. Giungono costantemente delle immagini, dalla Libia, dall’Afganistan, dall’Iraq, dai luoghi dove sta accadendo qualcosa. Io credo sia realmente importante esporre queste foto. Ed è ciò che noi facciamo costantemente qui, semplicemente per muovere le coscienze della gente. Non si può così facilmente abbandonare la speranza, che almeno non provochi un cambiamento nelle coscienze individuali.

Com’è stato lavorare con Hans Namuth?

Il lavoro in sé non era così interessante: allora, nel 1984, giovanissimo e nuovo a New York, ero il suo assistente. Più stimolanti erano le discussioni con gli altri assistenti. Con Evelyn Hofer parlavo spesso della vita di Hans Namuth: era divenuto celebre fotografando moltissimi artisti a Long Island. Ciò
mi affascinava molto. Namuth lavorava sempre con fotocamere a lastre. Era molto stressante per lui, perché non aveva più una buona vista e non esponeva le pellicole in modo corretto, cosicché dovevamo sviluppare i negativi in laboratorio sotto un’illuminazione verde. Il mio compito principale era quello di controllare il grado di decadimento di prima, seconda e terza classe del suo archivio fotografico e individuare quali diapositive potessero essere ancora salvate o quali erano già irrimediabilmente danneggiate. Gli altri fotografi non diedero troppa importanza allo stato di conservazione dell’archivio. Le diapositive erano incorniciate sotto vetro e c’erano meravigliosi ritratti di numerosi artisti fino a Jackson Pollock. Ma all’interno c’era finita dell’acqua. Per me è stata un’esperienza basilare aver fatto un’archiviazione corretta. Ho pianto nel constatare quali diapositive erano andate distrutte per sempre.

Perchè ha scelto la fotografia e non ad esempio la musica o la pittura? Che cos’ha in più la fotografia rispetto alle altre forme d’arte?

Ho deciso di divenire fotografo oramai da moltissimi anni. E questa esigenza è sempre in me. Sento la necessità di lasciare tracce, di mostrare anche cose che difficilmente, con il tempo, restano. Poi è iniziata l’avventura della Galleria C/O. Durante i miei anni lavorativi ho stretto amicizia con moltissimi colleghi, famosi e non. Il mio sogno è sempre stato di avere un luogo, uno spazio, dove io potessi invitarli per discutere e confrontarci. C/O si è specializzata nella fotografia, perchè a Berlino ci sono molti musei e gallerie d’arte stupendi, ma quasi niente che riguardi la fotografia.

 

Potrebbe citarmi dei nomi che secondo lei hanno influenzato fortemente la fotografia?


Il mio sogno è ancora quello di realizzare una mostra con Sebastiao Salgado, perché con i suoi progetti a lungo termine ha toccato importanti questioni sociali e politiche internazionali. Apprezzo molto che abbia investito la maggior parte dei suoi proventi in una fondazione per il rimboschimento della foresta pluviale brasiliana. Stimo tantissimo i fotografi dell’agenzia Magnum. Uno di essi, René Burri, è stato tra i primi a spingerci a continuare il nostro lavoro della Galleria C/O, dopo la prima esposizione del 14 giugno 2000. Come donna, sicuramente Barbara Klemm, che, secondo me, è una delle migliori fotografe tedesche. Ha seguito e documentato la Repubblica Federale durante il periodo della sua sede a Bonn e ha scattato tutte le foto più importanti. Tuttora è in giro per il mondo a realizzare ritratti e documentari. Mi viene ancora in mente Sybille Bergemann. Sono felice che ci sia riuscito di realizzare una mostra sulla sua opera Polaroid completa a poca distanza dalla sua scomparsa.

Che cosa la lega a Berlino? L’ha influenzata nel suo lavoro?


Ho sempre desiderato vivere in un posto, dove so, che la gente mi venga a visitare volentieri e che venga non solo per vedere Stephan Erfurt, ma anche la città e le sue attrazioni. Il mio pensiero era di trovare alleati. Nella via Schlüterstraße c’è l’Hotel Bogota. Ho convinto il signor Rissmann, il proprietario, a mettere a disposizione una camera gratuita per i miei ospiti. Invitiamo spesso fotografi/e, che vengono volentieri, perché hanno un alloggio a disposizione e possono muoversi liberamente a Berlino. Questa città affascina per le sue dimensioni, per i suoi innumerevoli parchi e laghi, per la natura. Berlino offre tutto ciò che cerchiamo ed è il motivo perché i nostri ospiti vi soggiornano volentieri.

Berlino è una città in continuo mutamento. Quanto è cambiata la città dalla fondazione della Galleria C/O?

Quando sono giunto qui, vi erano centinaia di gru e la città era molto più polverosa. Oggi è ne è rimasta solo una. Sono stati costruiti numerosi edifici e Berlino è diventata sempre più internazionale. In molti vanno via, ma ne giungono di nuovi. Interessante è che

ultimamente arrivano persone un po’ più adulte. Nelle nostre teste esiste sempre il confine tra est ed ovest, anche se con gli anni questa differenza si è andata affievolendo. Per me è importante che l’edificio della C/O si trovi proprio nella zona dell’ex confine, nel centro città, per unire simbolicamente le persone anche attraverso la fotografia: noi esponiamo importanti fotografi sia dell’est che dell’ovest.

Qual è la fotografia del futuro?

Esiste già la professione del fotografo della rete, come ad esempio in Twitter e Flickr, perché è facile la funzione di scambio. Io, però, continuo a credere nell’importanza di un luogo fisico come punto d’incontro e scambio. Bisogna “toccare” la foto con i propri occhi e avere la possibilità di interagire con gli altri visitatori delle mostre e con gli autori delle foto e discutere con loro personalmente. Abbiamo riflettuto sulla necessità di aprire un blog e siamo giunti alla conclusione che non sarebbe stato sufficiente. Crediamo nell’incontro, nella discussione davanti alle immagini. Per questo ci saranno sempre delle mostre ed è sempre più necessario avvicinare i giovani alla fotografia. I ragazzi di oggi non conoscono più la rivista FAZ e numerosi fotografi. Essi sono il pubblico futuro della cultura. Se non li sensibilizza oggi, non ci saranno più visitatori nelle gallerie. Per tale motivo noi realizziamo programmi per ragazzi e bambini. Così ne suscitiamo l’interesse.

testo e foto di Emilio Esbardo

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