Toby E. Rodes, americano di quarta generazione, è nato il 1919 a Francoforte. È stato il cofondatore della Berlinale (nel 1951), il responsabile stampa del Piano Marshall e della democratizzazione dei media della Germania.
Toby ha abbandonato la scuola tedesca e la Germania nel 1934 dopo il discorso antisemita dell’insegnante di biologia. Ha preso la maturità nei pressi del Lago Lemano, nella Svizzera francofona, nel 1936 si è trasferito a Londra e, nel 1937, a New York.
Ha servito le forze americane nell’immediato dopoguerra, prima nel reparto di “Guerra Psicologica”, poi nel reparto di “controllo dell’informazione” sotto Lucius D. Clay, per la formazione della stampa democratica in Germania.
Dal 1950 al 1955 ha lavorato come capo dell’informazione del Piano Marshall in Germania ovest ed ha gestito la parte comunicativa del cosiddetto Piano Schuman della parte americana, progetto precursore dell’Unione Europea.
Oggi vive a Basilea. Nonostante i suoi 93 anni è ancora molto attivo. Ha fondato e dirige la Toby E. Rodes Consultants Agentur.
Toby E. Rodes ci ha concesso un’interessantissima intervista telefonica, dove ci ha raccontato del suo contributo nella fondazione della Berlinale e della ricostruzione della Germania e di Berlino, dove lui ha fatto di tutto, affinché gli imprenditori non lasciassero la città per paura dei russi.
A proposito dei russi il sig. Rodes ci ha raccontato come abbiano tentato di farlo ubriacare con della Vodka per fargli firmare documenti. “Mi trovavo al vecchio Municipio di Schöneberg nel settore sovietico, quando i russi mi hanno offerto della vodka”, ha raccontato ridendo, “Io ero già stato preavvisato da ufficiali americani. Allora ho sollevato il bicchierino in direzione della bocca e quando si sono distratti, ho gettato il contenuto dietro le mie spalle. Non sono mai caduto nel loro tranello e non ho mai firmato nessun pezzo di carta. La vodka, però, mi piace e qualche volta ne bevo un po’ a casa”.
Signor Rodes, quando è arrivato la prima volta a Berlino?
Nel 1945, quando eravamo già in Guerra Fredda con i russi, i quali dopo l’incontro di Stalin con Roosevelt a Yalta, non avevano mantenuto le loro promesse. Per noi era già chiaro che volevano avere l’intera città sotto la loro giurisdizione, cosa inaccettabile. Per noi Berlino doveva essere un ponte di collegamento tra l’est e l’ovest, con l’Europa occidentale e gli Stati Uniti.
Appena è arrivato, quali sono state le sue impressioni della città?
La città era distrutta. Quando ci spostavamo con le macchine, le strade erano piene di buche e si vedevano dappertutto donne malvestite, che soffrivano il freddo. Lavoravano duramente per mettere via le macerie e rendere Berlino nuovamente viabile. Si aveva la sensazione di essere in una città morta. Era stranissimo e poco piacevole. Questa sensazione era molto più forte che in qualsiasi altro luogo tedesco. Ad esempio Francoforte: era sì abbastanza distrutta, ma non allo stesso livello della capitale.
Com’è avvenuto il processo di democratizzazione della Germania?
Era già iniziato prima della fine del conflitto bellico. Avevamo intrapreso una guerra anche psicologica, influenzando la maniera di fare informazione in Germania e immediatamente, dopo l’8 maggio, giorno della resa, abbiamo chiuso tutti i mezzi di comunicazioni preesistenti: radio, stampa, etc. Il nostro primo obiettivo è stato insegnare, far comprendere ai tedeschi l’importanza dell’obiettività dell’informazione: bisogna raccontare i fatti esattamente come sono avvenuti e poi si può aggiungere la propria opinione personale, condivisibile oppure no, ma i fatti devono essere separati dalla propaganda. La specialità dei nazisti era di fare propaganda modificando i fatti. Per questo motivo noi abbiamo concesso la prima licenza di apertura al quotidiano Frankfurter Rundschau, nonostante tutto fosse più di sinistra: dal punto di vista nazista era completamente pulito. All’inizio l’abbiamo negata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung perché il redattore capo non rispettava i principi della stampa libera, non legata alle ideologie. Poi pian piano hanno aperto a Berlino una radio ed un giornale americano-tedesco, e così via.
Com’era gestire la comunicazione durante la Guerra Fredda?
Non c’erano abbastanza telefoni e noi spedivamo i comunicati stampa ai giornalisti attraverso la banda magnetica. Abbiamo inviato i giornalisti all’estero per riportare notizie da tutto il mondo ed abbiamo educato, così, la popolazione a leggere articoli con opinioni differenti e di idee politiche distinte. I giornalisti erano sempre tenuti a separare l’opinione dai fatti.
Voi avevate proposto il piano Marshall anche ai russi?
Sì, ma loro non volevano ed i tedeschi dell’est non potevano. Come clausola per ricevere i soldi del Piano Marshall, c’era l’obbligo dei russi di mantenere le loro operazioni attive anche nel settore degli alleati. Nel 1952, ho organizzato la festa per la gioventù nel nostro settore americano a Berlino, donando un pallone d’aria ai ragazzi, dovre vi era attaccata una cartolina postale diretta a Bad Godesberg (sede del Piano Marshall). Quei palloni hanno attraversato in volo il territorio della Polonia, della Cecoslovacchia e della Russia, quasi fino a Mosca. Sulla cartolina c’erano le insegne del piano Marshall e anche messaggi di pace dei giovani. I cittadini russi che hanno preso i palloni hanno inviato le cartoline a Bad Godesberg per posta. Questa è stata la dimostrazione che si poteva attraversare la cortina di ferro. Su tre cartoline c’era la richiesta di risarcimento spese per il francobollo.
Che tipo di persona era Lucius D. Clay?
Clay era un uomo molto gentile e intelligente. Era sotto pressione tutto il tempo e non aveva cinque minuti liberi. Io l’ho frequentato poco. Il mio primo incarico è stato di ufficiale addetto alla stampa agli ordini del generale Maxwell Taylor, per quattro mesi a Berlino. In seguito sono stato trasferito a Francoforte e a Bonn con l’incarico di responsabile per le comunicazioni del Piano Marshall. In queste sedi ho operato per tutto il territorio della Germania ovest. Ho realizzato i progetti per l’integrazione della Germania in Europa, allo scopo di evitare una nuova inimicizia tra francesi e tedeschi. Poi mi sono impegnato per il successo del Piano Schuman del 1951, che prevedeva la produzione in comune del carbone e dell’acciaio in sei Paesi. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio è stata la prima forma di Unione europea in assoluto. Mi avevano affidato questo compito perché parlavo 5 lingue. Ma già allora abbiamo fatto un grandissimo errore: non riconoscere le abissali differenze che c’erano tra gli Stati del sud e del nord Europa. È stato come negare le differenze che esistono tra un italiano di Torino ed un italiano di Palermo. Questo sbaglio ha delle forti conseguenze con quello che sta accadendo oggi.
Quando, come e perché è nata in lei l’idea di un Festival del cinema a Berlino?
Mi ero proposto di collegare Berlino con il resto del mondo. Volevo farlo però non su una base politica, bensì sull’intrattenimento, la spensieratezza. Il Festival, nelle mie intenzioni, doveva avere una funzione d’internazionalizzazione della città e, attraverso la visione di film di differenti Paesi, di sviluppare una capacità critica nella gente. Inoltre mia madre Olivia Veit ha lavorato come attrice, a Berlino, sotto la regia di Max Reinhardt: anche per questo ho teso verso la cinematografia. All’inizio abbiamo dovuto creare le strutture necessarie. Ad esempio in città vi erano solo poche sale dove proiettare i film e l’industria cinematografica si trovava nel settore dei russi. Alfred Bauer, il primo direttore del festival si è occupato della parte artistica, io della parte finanziare e pragmatica, come quella di pagare i viaggi degli attori, quali Gina Lollobrigida, Sophia Loren, etc.
In concreto come ha finanziato la Berlinale?
I soldi li ho presi dal mio budget dell’Informazioni del Piano Marshall. Io ho finanziato la prima e la seconda edizione della Berlinale.
Come hanno reagito a Cannes e a Venezia?
I francesi non hanno cooperato. Erano dell’idea che non avrei dovuto farlo. I veneziani, invece, ritenevano che in ogni caso loro erano i migliori nel campo.
Ed i russi?
Erano arrabbiatissimi. Essendo Berlino ovest un’isola all’interno della DDR, è stato molto complicato portare gli attori in città: i russi controllavano le vie di comunicazione.
Si ricorda com’è stata percepita la prima edizione della Berlinale?
La reazione della gente è stata molto buona ed interessante. Tutto ciò che si presentava ai loro occhi era completamente nuovo. La popolazione dell’epoca non sapeva nulla sulla produzione cinematografica dei francesi, degli inglesi, degli americani. Conoscevano solo gli attori ed i registi tedeschi.
Se non sbaglio, all’epoca, le attrici italiane erano molto ammirate e contese?
Sì. Io sono rimasto molto colpito da Gina Lollobrigida, che ho conosciuto a Berlino, insieme a suo marito. Con lei ho avuto delle discussioni molto intelligenti e piacevoli. Sophia Loren era giovanissima e dava l’impressione che non sapesse che conoscesse l’esistenza del mondo: stava appena iniziando la sua vita pubblica, sotto le luci dei riflettori. La Lollobrigida, più grande di età, era una signora con delle idee proprie, con una visione del mondo.
Cosa può raccontare su Alfred Bauer?
Era un uomo tranquillo e desideroso di fare un buon lavoro. È stato gradevole collaborare con lui. Non eravamo proprio amici, perché io abitavo a Bad Godesberg e a Berlino venivo settimanalmente solo per lavoro.
I film possono cambiare il mondo?
I film possono aiutare a capire che esistono differenti culture e differenti modi di percepire la realtà, che vanno rispettate. A tale scopo è importante guardare i film in lingua originale con i sottotitoli.
Lei ha conosciuto anche Dieter Kosslick, l’attuale direttore della Berlinale. Che opinione si è fatto?
Dieter Kosslick sta facendo un ottimo lavoro, ma difficile, con la politicizzazione della Berlinale: finora ha svolto questo compito magnificamente.
Secondo lei, l’Europa riuscirà a superare la crisi che sta vivendo?
Gli esseri umani continuano a farsi del male tra di loro. Io ho paura che non apprendano molto dalla storia e che continuino ad ammazzarsi tra di loro.
di Emilio Esbardo
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